“La moglie” di Jhumpa Lahiri (Guanda)

Mi ero detta: uff, il solito libro indiano, tutto fiori e luna e amore. Invece è un romanzo bellissimo. Ma bellissimo-bellissimo. Ne sono entusiasta. E, sì: l’amore, la luna, i fiori ci sono, ma trattati in un modo originale, sobrio e intelligente.

Una storia ricca, un background molto interessante, una scrittura elegante. Non un attimo di noia, in queste quattrocento pagine. Soltanto ammirazione sconfinata per l’autrice.

Un romanzo come dovrebbero essere tutti i romanzi. I romanzi sul serio, intendo, non la solita fuffa.

Leggetelo, mi raccomando.

“Tutta la verità su Ruth Malone” di Emma Flint (Piemme)

“Si legge d’un fiato”, dice la quarta di copertina. Verissimo. “Fa battere il cuore”. Mica tanto. Non è un thriller di quelli con colpi di scena e, appunto, batticuori. Però è una lettura gradevolissima (be’, l’argomento è meno gradevole, ovvio, sono stati uccisi due bambini) fatta di scrittura curata e scorrevole, di sensibilità e di sobrietà.

New York, 1965. Ruth, una ventiseienne bella e sensuale, è odiata dalle vicine di casa. Perché? Be’, perché loro si aggirano in vestagliette e bigodini, meste e rancorose verso la propria vita. Ruth invece splende. Splende di luce propria, perché non avrebbe, a ben guardare, grandi motivi per luccicare così. Ma quel po’ di luce che emana, soprattutto quel sex appeal incredibile, disturba la società dell’epoca. (Non che adesso si sia molto più aperti, ma lasciamo perdere).

Fino al punto da. Niente. Non posso dirvelo.

Mi è piaciuto. Il finale un po’ meno, perché è, come si dice, un po’ tirato via.

Però leggete questa autrice esordiente, è brava. Tutta la verità su Ruth Malone è perfetto per le domeniche pomeriggio un po’ pigre e pigiamate. Mi raccomando, almeno voi, niente bigodini. 😉

“Amsterdam” di Ian McEwan (Einaudi)

Senti, Ian, in questi anni mi hai affascinato con L’inventore dei sogni, L’amore fatale, Espiazione, Sabato, Chesil Beach, Solar, Miele, La ballata di Adam Henry. E soprattutto mi hai stregata con Il giardino di cemento e Nel guscio. Oggi ho finito di leggere Amsterdam e, puf.

Puf, nel senso che non so se ti amo ancora.

Non mi è piaciuto, il tuo Amsterdam. Ecco, te l’ho detto. L’ho trovato un po’ noiosetto, sai? E anche spettinato. Nel senso che la struttura che gli hai dato è imperfetta, la messa in piega si è afflosciata in fretta, è affiorato un po’ di crespo e qualche millimetro di ricrescita.

Scusami, ma come lettrice sono pignola. O meglio: se l’avesse scritto un altro, questo tuo romanzo, avrei detto carino. Ma l’ha scritto tu. E allora ci rimango male.

Va be’, magari è colpa mia che sono di cattivo umore in questo periodo. Uhm.

Ciao.

“L’animale che mi porto dentro” di Francesco Piccolo (Einaudi)

Bellissimo l’inizio, bellissima la fine.

Tutto il resto, l’ho trovato, nonostante l’argomento, nonostante tutto, un po’ distante. Interessante, senz’altro. Originale, anche. Ma non mi ha preso, come si dice.

È tra il saggio e il mémoir, questo libro. Non è un romanzo. Quindi non è prevista l’emozione. Eppure ultimamente ho letto parecchi saggi di etologia (a proposito di animali che ci portiamo dentro) che mi hanno emozionato moltissimo. Qui non è scattata l’empatia, ecco.

Comunque: ovviamente ben scritto, ben fatto, e tutto il resto. Francesco Piccolo è molto bravo. Se non ci fosse stato quel finale così intelligente, amaro e ironico, avrei detto bah. Invece dico beh, sono contenta di averlo letto. Non contentissima, ma contenta.

Ah, di cosa parla? Di come sono fatti veramente-veramente-veramente gli uomini. Con una teoria sul branco che in parte accolgo, in parte no.

“Acqua passata” di Valeria Corciolani (Amazon Publishing)

Valeria Corciolani ha una scrittura deliziosa. Ma deliziosa veramente.

Ogni tanto, leggendo questo libro, mi fermavo a pensare, ammirata, al geniaccio di questa autrice così brava a inventarsi espressioni originali e metafore esilaranti.  Peccato non averle sottolineate, ve le avrei riportate qua molto volentieri. Mi sa che dovete leggere il libro e trovarle voi. 🙂

La storia di questo poliziesco ambientato a Chiavari è molto carina. E, di nuovo, piuttosto originale nella scelta dei personaggi. (Tra i quali una colf dai fianchi robusti e dalla mente sottile capace di leggere la realtà più lucidamente di Sherlock Holmes). Sono meno entusiasta del plot, invece, che ha un paio di punti deboli, secondo me. Un po’ tirati per i capelli, ecco. Ma la lettura è talmente piacevole, grazie allo stile frizzante e curato della Corciolani, che si perdona qualche fragilità.

Ve lo consiglio? Sì, se avete voglia di leggere qualcosa di veramente ben scritto e fresco.

“Rumore bianco” di Don De Lillo (La Biblioteca di Repubblica)

Bellissimo, davvero bellissimo.

A parte una mia lieve crisi isterica verso pagina 300, quando le discussioni filosofiche tra i due studiosi si sono dilungate un filino troppo, è un romanzo davvero splendido.

Scrittura eccellente, storia interessante. Impegnativo, questo sì. Ma la crisi isterica di pagina 300 e dintorni è ripagata da un romanzo incantevole, di livello altissimo.

Confesso che, di Don De Lillo, non avevo ancora letto nulla. Sono felicissima di questo incontro, che devo alla mia solita bancarella dell’usato, dove trovo anche titoli non recenti, che non urlano dagli scaffali delle librerie.

È la storia di una famiglia americana e di una nube tossica che invade i loro polmoni e le loro vite, stravolgendole. Ma non è solo questo: c’è tantissimo, in questo libro. Compreso il genio di Don De Lillo.

Se avete voglia di una lettura impegnativa e amate i libri davvero belli, leggetelo. Tanto, se a pagina 300 vi coglie un istinto omicida, sapete che non siete soli. 🙂 E comunque passa subito, promesso.

“Diario di un cinico gatto” di Daniele Palmieri (Salani)

Era un romanzo autopubblicato, poi Salani l’ha adottato.

Carino, molto. Pieno di riferimenti letterari e filosofici, pieno di idee.

Probabilmente un editor e una casa editrice, fin dall’inizio della stesura, avrebbero aiutato l’autore a evitare qualche piccola ingenuità stilistica o di struttura. Ma resta un romanzo gradevolissimo, molto La collina dei conigli, con un bel senso dell’umorismo e una profonda conoscenza dei felini.

Daniele Palmieri ha solo ventiquattro anni, ed è già parecchio bravo, secondo me. Spero continui a scrivere, perché gli riesce proprio bene. Voi intanto, se amate i gatti e le storie rocambolesche, leggetelo. Sono quattrocento pagine senza una riga di noia.

“Misteriosa” di Elisabetta Gnone (Salani) e “Il figlio prediletto” di Anna Nanetti (Neri Pozza)

Non c’entrano nulla, lo so. È che li ho letti uno dietro l’altro, senza nemmeno un caffè di pausa, e allora mi viene da parlarne insieme. Ma, pensandoci, invece c’entrano eccome. Per contrasto, ma c’entrano moltissimo.

 

Misteriosa è un libro per ragazzi, ma anche per adulti (Per diventare splendidi adulti occorre restare un po’ bambini, cito dal romanzo, pur senza sentirmi né splendida né adulta). Tra i libri che ho letto della Gnone, è il mio preferito. Delicato, intelligente, originale. Ben scritto. Un po’ troppo perbenino e didattico, ma davvero delizioso. Racconta del desiderio di fuggire dalla realtà attraverso la fantasia.

 

Il figlio prediletto è un bel romanzo. Due storie di ragazzi, un po’ più grandi di quelli di Misteriosa e, altro che perbenino. Ragazzi disperati, ragazzi immersi in una realtà terribile dalla quale tentano di fuggire, ma qui la fantasia non li può aiutare.

 

Mi sono piaciuti entrambi,  e ve li consiglio.

“Becoming” di Michelle Obama (Garzanti)

La mia anima pigra e paracula mi invita sempre a imparare le cose leggendole romanzate. E così, appena è uscito Becoming, l’ho comprato. Come immaginavo, ho imparato un sacco di cose. Ma, ahimè, ogni tanto mi sono anche annoiata. Non per i contenuti, ma perché alcuni sono ripetuti centocinquantamila volte. Michelle, o chi per te, sono pigra, ma non sono scema. Se mi dici una cosa una volta, me la ricordo, non c’è bisogno di farmi un memo di due pagine così spesso.

Altro problemino, questo assolutamente personale, non ho empatizzato con l’autrice. Io, a differenza sua,  non sono ambiziosa, non amo pianificare, e detesto lo sport. Quindi non ho sentito quella bella sensazione di essere tutt’uno con chi mi racconta una storia. Ma, ripeto (toh, mi ripeto anch’io 🙂 ) questo è un fatto assolutamente personale.

In sé il libro è molto, molto, molto interessante, e vale la lettura. Anzi, lo consiglio proprio. E consiglio anche, ma non dite a nessuno che ve l’ho detto, di farsi un regalo: saltare senza sensi di colpa le parti ripetitive. A me, di questo testo, ne sarebbe bastata la metà. Ma, come dicevo all’inizio, io sono pigra e paracula. 🙂

“La bambina che trovava le cose perdute” di Patrizia Emilitri (Sperling&Kupfer)

E poi ci sono i romanzi onesti, freschi, schietti. Riposanti. Scritti con cura. Privi di furbizia. Veri. Una boccata d’aria fresca. Come La bambina che trovava le cose perdute. Romanzi che raccontano le piccole cose di paese, quelle che, a una irriducibile cittadina come me, insegnano tanto su realtà che ignoro praticamente del tutto.

La bambina che trovava le cose perdute è una bella, piccola storia. Con un’idea di fondo intelligente, originale e per niente gratuita, che regge benissimo per tutte le quasi trecento pagine.

È una storia che si legge con piacere, la scrittura è molto visiva (come si invita a fare nelle lezioni di scrittura creativa: Show, don’t tell). I dialoghi, con quell’impronta padanissima, molto credibili. Ci sono, a mio avviso, un paio di capitoli non proprio all’altezza degli altri, che forse si potevano togliere, ma è un peccato veniale.

Noemi, la protagonista, ha un dono: quello di trovare gli oggetti che gli altri smarriscono. Eh, cari miei, ma non è così semplice portare un dono del genere sulle spalle. È un dono pesante.

E quando qualcuno in paese ruba il segnatempo? Le cose si complicano ancora di più. Già, ma cos’è un segnatempo? E cosa ne pensa Ulisse, l’albero amico di Noemi, di tutta questa situazione?

Prendetevi un paio di pomeriggi di pioggia, mettetevi belli comodi sul divano, e scopritelo.

“Eleanor Oliphant sta benissimo” di Gail Honeyman (Garzanti)

Dieci e lode per la scrittura. Sei meno per la trama.

Ma io sono una che, se anche la trama è bella, soffre tremendamente se la scrittura è sciatta.

Quindi, brava Gail Honeyman, autrice al suo primo romanzo. Dice che ne sta scrivendo un altro, che si svolge in Scozia negli anni Quaranta, e lo leggerò di sicuro, così mi terrò la splendida scrittura e otterrò una trama nuova.

È davvero brava a scrivere, questa donna. E ha anche un delizioso, sottile e acuto senso dell’umorismo, che sa dosare con eleganza.

La storia: Eleanor Oliphant (amo l’autrice già solo per la scelta del nome) è una donna di trent’anni un po’ strana. Parecchio strana. Vive e lavora a Glasgow, in totale solitudine e in totale inadeguatezza. Ma Oliphant non è il suo vero cognome. Gliel’hanno cambiato per proteggerla da un passato terrificante.

La sua vera storia viene svelata con sapienza, centellinata, qualche indizio qua, qualche ipotesi là, lungo tutto il romanzo. Fino quasi alla fine.

Un libro mai noioso, che ho letto volentieri. A volte piacevolmente stupita per lo stile, a volte provando forte empatia con l’autrice. Protestando un po’ per la trama, ma vabbe’, sono un’esigentona.

“Il monaco di Mokha” di Dave Eggers (Mondadori)

Caro Davidino, tu lo sai che ti amo, che il tuo L’opera struggente di un formidabile genio mi è piaciuto fino alla commozione, che ho gradito anche The Circle ed Eroi della frontiera.

Adesso vuoi sapere che reazioni ho avuto leggendo Il monaco di Mokha? Premetto che è un periodo in cui molti degli autori che amo mi deludono, e davvero magari non siete voi ma sono io.

Comunque. Primo terzo del tuo libro: Uh, ma dai, che storia interessante e originale.

Secondo terzo: Ehi, Dave, ma che palle con ‘sto caffè, neh.

Terzo e ultimo terzo: Oh, finalmente la storia si anima, bella, mi piace, è interessante e la lettura scorre che è un piacere. Finito, peccato.

Però quel secondo terzo, Davidino, che due palle. Senti, ma lo dovevi proprio scrivere tutto tuttissimo? No, perché l’intero tomo consta di circa trecentocinquanta pagine scritte in piccolo, quindi il secondo terzo non è mica un bruscolino.

Vabbe’, ti amo lo stesso, e ora guardo il bicchiere mezzo pieno: Il monaco di Mokha è una storia vera, quella di un americano con origini yemenite che ha un sogno, il suo sogno riguarda il caffè, ed è un sogno talmente folle e adorabile che lo realizza. Il tutto, raccontato da un formidabile genio. (A parte quel pippone sul caffè nel secondo terzo, scusami se insisto).

Ciao, Davidino, grazie, se scrivi qualcos’altro lo leggo.

“La ballata di Adam Henry” di Ian McEwan (Einaudi)

McEwan mi piace. L’inventore di sogni, Espiazione, Chesil Beach, Miele, ma soprattutto (soprattuttissimo)  Nel guscio Il giardino di cemento mi sono piaciuti. Così, siccome de La ballata di Adam Henry sta uscendo il film (Il verdetto), mi son detta: lo leggo. Così poi posso dire che il film è meno bello del libro, come da tradizione. 😛

Un bel romanzo, molto, per quanto riguarda il suo cuore, cioè il rapporto tra il giudice Fiona e Adam, il ragazzo malato che ha bisogno di una trasfusione di sangue ma è un Testimone di Geova e quindi secondo la sua fede non può accettarla.  Quella parte è veramente bellissima, ricca di sensibilità e intuizioni ed emozioni. Anche la parte che racconta del matrimonio in crisi di Fiona è pregevole. Il contorno, diciamo, l’ho trovato invece un po’ pedantuccio e noiosetto, come McEwan ogni tanto sa essere.

Forse nel film le parti pedantucce e noiosette non le sceneggeranno, così per una volta potrò dire: meglio il film. Chissà.

“L’assassinio del commendatore” di Murakami Haruki (Einaudi) – Libro primo

Mah. E chi dice mah, cuor contento non ha.

Di Murakami ho letto parecchi romanzi, Nel segno della pecora, Norwegian wood, L’uccello che girava le viti del mondo, La fine del mondo e il paese delle meraviglie, Dance dance dance, forse qualche altro ancora, e ovviamente 1Q84. Li ho amati tutti.

L’assassinio del commendatore, no.

E non credo che leggerò, essendo questo il libro primo, il seguito.

Non so. O sono cambiata io come lettrice, o è cambiato lui come scrittore. O magari entrambe le cose. O nessuna.

Fatto sta che l’ho trovato noiosetto, ripetitivo, freddo.

Non c’è mai stato un momento, durante la lettura, in cui mi sia emozionata: né per le idee, né per la scrittura.

E insomma, è successo. Il primo romanzo di Murakami che non mi è piaciuto è arrivato. Insieme all’autunno. Uffa.

“La vita segreta dei cani” di Elizabeth Marshall Thomas (Longanesi)

Aspettando l’uscita del nuovo romanzo di Murakami in libreria, ho dato un’occhiata alla  fida bancarella di libri usati nel mio quartiere. Ho trovato La vita segreta dei cani, e me lo sono portato a casa.

Bellissimo.

Chi vive con un cane, e chi ama gli animali in genere, dovrebbe assolutamente leggerlo.

È un testo vecchiotto, la mia edizione è del 1994, ma è davvero interessante e commovente. L’autrice, etologa dilettante, ha osservato con sensibilità, rispetto, intelligenza i suoi cani per anni, rivelandoci, cito dalla sinossi, “aspetti di questi straordinari animali che nessuno fino a oggi era riuscito a evidenziare con tanta sensibilità e a narrare con voce altrettanto brillante e partecipe”.

C’è una scena, poi, che mi ha commosso fino alle lacrime (ma quando si tratta di animali io piango sempre). Una husky femmina ha appena partorito. La raggiunge l’husky padre. Si guardano negli occhi. Poi lui, pluf, vomita. Ma sapete perché vomita? Perché i lupi, quando vogliono nutrire i cuccioli appena nati, rigurgitano il cibo per offrirglielo. Quindi l’husky padre, con quel gesto ancestrale, ha voluto dirle, più o meno: Okay, moglie, nutrirò i nostri piccoli. (E io, giù lacrimoni).

Leggetelo, leggetelo, leggetelo. È scritto bene, scorre liscio, e si imparano molte cose, sui cani, e anche sulle dinamiche di noi umani.

“Il giro dell’oca” di Erri De Luca (Feltrinelli)

Mettiamola così: dopo aver letto il suo Montedidio, è difficile innamorarsi di un altro romanzo.

Montedidio, De Luca l’ha scritto in uno stato di grazia, Il giro dell’oca no.

Intendiamoci, è un gran bel libro, ma non è tra i migliori dell’autore. E io, che lo amo, oggi mi sento come quelle mogli insopportabili che pretendono l’ardore e la passione dei primi mesi, precisi identici anche dopo decenni di vita insieme e, se non li trovano, si offendono e mettono il muso.

Ecco.

“Matrigna” di Teresa Ciabatti (Solferino)

Teresa Ciabatti è un’autrice che apprezzo (La più amata mi era piaciuto molto). Il titolo, Matrigna, mi ha incuriosito, essendo io una matrigna (ma buona, come precisano le mie figliastre). Quindi non potevo non comprarlo. Ieri mattina l’ho portato a casa, ieri notte ho finito di leggerlo.

Mi è piaciuto. La più amata, di cui questo riprende alcuni temi, l’ho preferito perché in certi punti era davvero odioso, e per essere odiosi ci vuole coraggio.

Comunque. È un bel romanzo, intelligente, molto ben scritto, con un’idea forte. Un po’ nebuloso, questo sì, la trama non è chiarissima, tra salti temporali e vaghezze, ma è anche il suo bello.

Si legge con piacere, con interesse, è morboso quanto basta.

Consigliato? Consigliato.

“Nascita di un ponte” di Maylis De Kerangal (Feltrinelli)

Avevo letto Riparare i viventi (bellissimo), avevo letto Corniche Kennedy (bello) e allora l’altro giorno ho preso in libreria anche Nascita di un ponte, sempre della De Kerangal.

Bello, eh, e anche molto interessante, ma secondo me in questo romanzo l’autrice si compiace troppo della propria – peraltro splendida – scrittura, e la lettura diventa faticosa. Ossessiva nelle informazioni tecniche, spiazzante nella distribuzione di virgole, irta e anche erta.

Insomma, io sono una che fa fatica ad addormentarsi la sera ma, con Nascita di un ponte, dopo venti minuti vi assicuro che si dorme come agnellini.

Grande letteratura, ma poco piacere, in questa lettura. Irta, erta, e che urta. 😛

“Montedidio” di Erri De Luca (Feltrinelli)

Bello, bello, bello.

Un libro perfetto.

Commovente ma asciutto, poetico e graffiante, magico nella trama e nella scrittura. Forse, tra tutti i romanzi di De Luca, il mio preferito.

Uno di quei rarissimi libri in cui ogni parola è un po’ come la notte di Natale per un bambino. Magica e densa di attese. In questo caso, i doni sotto l’albero sono esattamente quelli che abbiamo desiderato. Anzi, ancora più incantati.

Bello, bello, bello.

“Le persiane verdi” di George Simenon (Adelphi) e, sorprendentemente, “Asimmetria” di Lisa Halliday (Feltrinelli)

Ma tu guarda. Due romanzi letti uno dietro l’altro, con tante coincidenze. Coincidenza uno: i protagonisti sono entrambi vecchi, famosi, malati di cuore. Coincidenza due: stanno con donne infinitamente più giovani di loro, deliziose e accudenti. Coincidenza tre: le donne si chiamano entrambe Alice. Coincidenza quattro: tutti e due i libri mi hanno deluso molto.

Da Simenon non me l’aspettavo, è uno di quegli autori che riesce sempre a stregarmi, con quelle sue atmosfere umide, grigie, morbose. E invece questa volta mi ha annoiato. Ma tanto, eh. Addirittura da farmi dire: okay, adesso vado in libreria e mi compro un libro che sicuramente mi piacerà, ne voglio uno più fresco, più attuale. Fresco è fresco, Asimmetria, attuale anche, ma non mi è piaciuto un granché. Ne avevo sentito parlare molto bene, anzi benissimo, per quello l’ho preso. Incauta consumatrice. È scritto con cura, questo sì, e con uno stile interessante, ma con un sentore di corso di Scrittura Creativa terminato due minuti prima. E va be’. L’autrice poi ha quel vizio, comune a molti autori, specie americani, di specificare sempre la marca di ogni oggetto. E l’aranciata Pinco Pallo, e il dentifricio Pinco Pallino, e le sedie Pinco Cheppalle. Magari, per chi vive a New York, queste informazioni sono utili per inquadrare un personaggio o una situazione, chissà. Ma per me che abito a Milano sono soltanto noiose. E poi ancora: la storia che la Halliday racconta sarebbe anche interessante e ben scritta, al vecchio Ezra, il protagonista maschile, ci si affeziona un sacco. Peccato che, appena scatta l’affezione, pum, la storia finisce e ne attacca un’altra. Asimmetrica senz’altro, per carità, ma allora ditelo che sono due romanzi brevi messi insieme.

Insomma, uffa. Adesso mi rileggo Calvino, così mi passa il nervoso.

“Betibù” di Claudia Pineiro (La Biblioteca di Repubblica- L’Espresso)

Bello. Proprio bello. Un noir avvincente e anche interessante, una scrittura curata, una struttura ben organizzata. Insomma, dopo Le vedove del giovedì(bellissimo), mi ero ripromessa di leggere ancora qualcosa della Pineiro, e mi è piaciuta anche questa volta. Brava, proprio brava.

Buenos Aires, quartiere esclusivo (lo stesso, più o meno, di quello de Le vedove del giovedì). Un uomo viene trovato in casa sua, in poltrona, con la gola tagliata. Una scrittrice e due cronisti di nera indagano. E scoprono cose che non vi dico, ovvio.

La protagonista – Betibù perché assomiglia a Betty Boop – è adorabile. E anche Brena, il vecchio giornalista, è uno a cui, nonostante l’età, la pancetta e i capelli non precisamente folti, è facile affezionarsi. Sotto traccia, c’è anche una storia d’amore. E una di disamore, così vera che, in una scena in particolare, ci si immedesima perfettamente.

Un romanzo intelligente che ho letto con molto piacere e interesse. E grande ammirazione per Claudia Pineiro.

Leggetelo.

“Il Doppio Regno” di Paola Capriolo (Bompiani)

È uno di quei libri che, appena finito di leggerli, ti fanno stare lì sul divano, ferma immobile, a pensare. Ma non è un pensare con soggetto, verbo, complemento oggetto. È un pensare vagando senza un sopra, un sotto, un dentro e un fuori.

La trama di questo romanzo, non la si può raccontare. Perché, la trama, è moltissime altre trame, tutte possibili, tutte vere, tutte false. Senza un sopra, un sotto, un dentro, un fuori.

È un morboso viaggio nella mente, un po’ alla Solaris di Stanislaw Lem, quello che la bravissima Paola Capriolo racconta con la sua scrittura elegante, decadente, che sa incantare. Un viaggio immobile, allucinato eppure lucido. Centosessantotto pagine in cui non accade praticamente nulla, eppure accade tutto. E questo nulla, dopo un po’, crea assuefazione, dipendenza. Ti porta dentro le sue spirali sempre più soffocanti, sempre più ariose.

Non è un libro facile. E questa è la sua meraviglia.

“L’Avversario”, di Emmanuel Carrère (Adelphi)

L’avevo detto, che dopo Vite che non sono la mia, avrei subito letto un altro Carrère. In effetti ieri mi sono precipitata in libreria, ho comprato L’Avversario, l’ho letto in un giorno. Mi è piaciuto moltissimo. Sì, certo, è duro, è la storia di Jean-Claude Romand, che nel 1993 ha ucciso sua moglie, i loro due bambini, i suoi due vecchi genitori, e il cane. Ha tentato anche di uccidere se stesso ma, com’è come non è, non ci è riuscito.

In più, “l’inchiesta ha rivelato che non era affatto medico come sosteneva e, cosa ancor più difficile da credere, che non era nient’altro.  Da diciott’anni mentiva, e quella menzogna non nascondeva assolutamente nulla. Sul punto di essere scoperto, ha preferito sopprimere le persone di cui non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo”.

Carrère è entrato in contatto con Romand, si sono scritti a più riprese, con lunghi intervalli di tempo. Alla fine, nel 2000, ha scritto questo libro.

L’ha scritto bene, benissimo. Ci conduce, con sensibilità e nello stesso tempo con anodina cura per i dettagli, nella mente di Romand, dove nulla è del tutto vero o del tutto falso.  Lo fa, Carrère, attraverso una scrittura superba, e una mente aperta.

Domani vado a comprare un altro suo libro, La Settimana Bianca.

“Vite che non sono la mia” di Emmanuel Carrère (Einaudi)

Non avevo mai letto romanzi di Carrère, tranne Facciamo un gioco. Ho sentito parlare molto bene di Limonov, ma non me lo sono mai portato a casa. Complice la bancarella dell’usato vicino a casa mia, invece, ho visto questo libro esposto e mi son detta: proviamo.

Racconta, come promette il titolo, di vite che non sono la sua, ma in realtà lo sono. Racconta dello tsunami in Sri Lanka, racconta del cancro della cognata, racconta del suo amore con Hélène, la moglie. E di tante altre vite. Tutte vere, che ha vissuto.

E le racconta meravigliosamente. Ha una scrittura preziosa, Carrère, fatta di crudeltà e tenerezza insieme. Mi ha ricordato un pochino Hoeullebecq.

Il libro è molto, molto bello, a parte il lunghissimo capitolo centrale che a mio avviso è di una noia mortifera. Riguarda le società finanziare, i prestiti, l’usura. Interessante, eh, ma noiosissimo. Infatti confesso che a un certo punto mi son detta: perché soffrire? e sono passata al capitolo successivo. Dove ho ritrovato emozioni e poesia che hanno lenito il mio senso di colpa. 🙂

Il prossimo libro di Emmanuel Carrère che voglio assolutamente leggere è L’Avversario, di cui ho letto l’altro giorno su Repubblica. Una storia vera, in cui l’autore, un po’ come Truman Capote in A sangue freddo, ha lunghi colloqui con l’assassino, e racconta la sua storia, i suoi pensieri, con profondità e precisione.

Bravo, Carrère, mi sei piaciuto. Ci rivediamo tra poco. Oggi vengo a prenderti in libreria.

“Una cosa sull’amore”, di Jeffrey Eugenides (Mondadori)

Eugenides mi era piaciuto tanto con Il Giardino delle Vergini Suicide, con Middlesex e con La Trama del Matrimonio. L’ho ritrovato volentieri in questa raccolta di racconti, uscita da poche settimane per Mondadori.

Certo, una cosa è un romanzo, una cosa sono dei racconti. Ma questi sono tutti molto belli, qualcuno di più, qualcuno di meno. Sono intelligenti, ben scritti, profondi. Ci vorrebbe un romanzo per ognuno di loro. Perché coi racconti ci si affeziona meno ai personaggi, sono incontri fugaci, apparentemente superficiali.

Apparentemente.

In realtà alcune storie di Una cosa sull’amore, anche se ho spento l’ereader da giorni, le ho ancora qua, davanti ai miei occhi.

“Divorare il cielo” di Paolo Giordano (Einaudi)

Be’, mi è piaciuto.

Mi era piaciuto La solitudine dei numeri primi, mi era piaciuto Il corpo umano. E anche questo, l’ho trovato davvero gradevole.

Mi ha ricordato un pochino E tu splendi, di Catozzella. Ma Divorare il cielo mi ha soddisfatto molto di più, l’ho trovato più completo. Una bella storia, ben scritta, anche interessante, di quelle che, quando finiscono, ti senti ancora là dentro, insieme ai suoi personaggi. Ti senti ancora il sole della Puglia sulla pelle, senti i dubbi e gli entusiasmi e le ingenuità, e gli ideali resi roventi dai raggi della giovinezza.

Bello. Da leggere.

“Il presidente è scomparso” di Bill Clinton e James Patterson (Longanesi)

Be’, era irresistibile, per me che sono curiosa. Un romanzo scritto da James Patterson, autore che ha venduto trecentosettantacinque milioni di libri in tutto il mondo, in collaborazione con Bill Clinton. Sì, proprio lui.

Un thriller raccontato dal punto di vista del presidente degli Stati Uniti, dai, come si fa a non leggerlo?  L’ho letto. Interessante, moltissimo. Noioso, zero. Una puttanata, abbastanza.

Comunque mi ha fatto buona compagnia in questi giorni di agosto, mentre ero in città a lavorare. Un romanzo da ombrellone, insomma? Sì. Io l’ombrellone non l’avevo, ma il concetto è quello. Lo consiglio? Sì, se non ci si aspetta letteratura, ma intrattenimento ben fatto e davvero interessante.

“Torpedone trapiantati” di Francesco Abbate (Einaudi), “Il Palio delle contrade morte” di Fruttero&Lucentini (Mondadori), e “Hotel Silence” di Auður Ava Ólafsdóttir (Einaudi)

Scelti a caso, due in libreria, uno nella bancarella dei libri usati, eppure tutti e tre hanno a che fare, in modi differenti, con la morte. Che poi, a pensarci, in fondo ogni cosa ha a che fare con la morte. Questi tre libri magari un filino di più, ecco. 🙂

Procediamo per ordine di apparizione: Torpedone trapiantati è struggente, ovvio (racconta di una gita di persone con organi trapiantati), eppure fa anche sorridere un po’ (pochino). Molto interessante, però non mi è piaciuto come speravo (titolo e idea mi avevano entusiasmato, la lettura meno).

Il Palio delle contrade morte: bè’, con Fruttero&Lucentini, vado sempre sul sicuro. Infatti questo romanzo, forse l’unico dei due autori che non avevo ancora letto, mi ha divertito parecchio.

E poi, Hotel Silence. Mi è piaciuto veramente molto. La scrittura è splendida, la storia è bella e ben narrata, anche se magari un po’ sfilacciata verso la fine. È un romanzo imperfetto, secondo me, ma ugualmente molto bello. Uno di quei romanzi che, anche dopo averli terminati, continuano a restare in circolo per molti giorni. Ve lo consiglio.

“Second hand” di Michael Zadoorian (Marcos y Marcos)

Proprio molto carino. Era uscito nel 2000, ma l’ho letto solo in questi giorni.

Il protagonista è un junker, uno che va a caccia di oggetti usati, scartati, vissuti. È la sua passione. Poi arriva un’altra passione, Theresa. Poi ancora, succedono altre cose, in questo romanzo delicato, divertente, commovente. Interessante, anche. Ben scritto, e benissimo tradotto da Michele Foschini, che non conosco, ma che ringrazio per la freschezza e la cura, rare, con cui ha svolto il suo lavoro. Bravi. Bravo Zadoorian, e bravo Foschini.

La trama del romanzo è organizzata, a dire la verità, in modo un po’ disomogeneo. È  l’unico difetto che ho trovato. Difetto perdonatissimo, mi sono goduta le sue trecentodiciotto pagine una per una, con grande piacere.

Leggetelo, Second Hand. È proprio molto carino. Molto molto.

“L’accordatore di piano” di Daniel Mason (Mondadori). “Da grande” di Jami Attenberg (Giuntina). “La giovinezza è sopravvalutata” di Paolo Hendel (Rizzoli). E last, ma assolutamente non least, anzi: “Il Ciclope” di Paolo Rumiz (Feltrinelli)

Li ho letti in queste settimane, ma sono state settimane piene di impegni, troppi, e non sono riuscita a commentarli per bene, uno alla volta, appena terminati. Lo faccio ora, in un mucchio selvaggio di commenti.

L’accordatore di piano me l’ha regalato mia zia, lettrice ultraottantenne dalla poderosa biblioteca (dev’essere una malattia di famiglia, questa dei libri). Romanzo interessante, devo dire. Scrittura curata, non particolarmente emozionante, anzi, di emozioni in tutto libro ne ho incontrate poche (e anche di cose ne accadono poche) ma, complici l’idea di base e l’ambientazione, un romanzo che si legge volentieri (e si tratta di trecentocinquanta pagine, che però scorrono piacevolmente, magari un po’ noiosette le parti storiche, almeno per me). 1886, un mite accordatore di piano viene convocato dal Ministero della Guerra inglese in una zona sperduta e ostile della Birmania…

Da grande, invece me l’ha regalato per il mio compleanno la mia amica Cinzia. Una ragazza, poi donna, vive a New York. Ha rapporti molto difficili con la famiglia, con gli uomini, con se stessa. Poi accade qualcosa che le fa rivedere tutto da un altro punto di vista. Ben scritto, molto bella l’ultima parte, meno bella la prima. Non mi ha lasciato sapori o profumi particolari, però, questo libro. Ben fatto, sì, ma come tanti altri libri ben fatti che ho letto.

Altro libro così così, secondo me, La giovinezza è sopravvalutata. Io probabilmente ho sopravvalutato il titolo, molto divertente, e mi aspettavo chissà cosa. Sono rimasta un po’ delusa. Qualche pagina divertente, certo, Paolo Hendel sa essere davvero esilarante (anche alla presentazione del libro, a cui ho assistito, ha fatto faville), ma insomma mi aspettavo di più. Ecco.

Il Ciclope. Ehhh, mi è piaciuto tanto. Paolo Rumiz passa qualche settimana su un faro, nel Mediterraneo, e lascia libero corso ai suoi pensieri: uno più interessante e magico dell’altro. Non succede niente, in questo libro, è un viaggio immobile, eppure si muovono emozioni e riflessioni a velocità straordinaria. Bello, proprio. Scritto meravigliosamente, maestoso e semplice. Da leggere.

“Non dire cazzo” di Francesca Rimondi (Frassinelli)

Me l’hanno mandato l’altro giorno, questo libro, e confesso di aver pensato: uff, un altro mappazzone ironico sulle mamme.  Vabbe’, mal che vada – e andrà mal – lo abbandono.

E invece no. Perché sono stata subito stregata dalla scrittura. Francesca Rimondi scrive BENISSIMO. Sì, lo scrivo così, in un aggressivo maiuscolo, ci vuole tutto. Una scrittura brillante, ma anche emozionante, con un ritmo perfetto e tanta freschezza. Ma non la freschezza cialtrona che si incontra spesso: una freschezza curata ed elegante. E colta.

Brava, bravissima Francesca Rimondi.

Il libro racconta, sì, di figli piccoli e figli adolescenti, e lo fa con ironia ed estrema grazia. Ma racconta di tante altre cose, compreso il rapporto della protagonista con suo padre, e quelli sono i brani che ho preferito in assoluto. Meravigliosi. Struggenti. E, tanto per cambiare, ben scritti. (E poi c’è il brano su benzinaio del Sillaro, che è un piccolo capolavoro).

Ah, già, dimenticavo: in questo libro, come si evince agevolmente dal titolo, c’è una densità di parolacce che a Bukowski je spiccia casa, come si dice. Ma è scritto così bene, cazzo, che quando arrivi all’ultima pagina ti dici: oh, cazzo, è finito, speriamo che scriva un nuovo romanzo, questa Rimondi, cazzo.

“Le vedove del giovedì” di Claudia Pineiro (Feltrinelli)

“Alla periferia di Buenos Aires, dietro alti muri perimetrali, al di là di cancelli rinforzati e affiancati dalle garitte della vigilanza, si trova il complesso residenziale di lusso Altos de la Cascada”. È un mondo a parte, dove tutto è sotto controllo, dove persino le piante crescono nella direzione voluta dai giardinieri e non dal sole, dove la vita oltre i cancelli sembra non poter penetrare. Eppure, pian piano, come radici che evadono dal fondo di un vaso di terracotta, nel residence si infiltra la vita reale. Per esempio, con tre cadaveri in piscina.

“Un’analisi feroce di un microcosmo sociale in un accelerato processo di decadenza”, così José Saramago descrive questo splendido romanzo. Splendido, sì: mi è piaciuto davvero molto.

La scrittura è asciutta e fulminante. La trama ben costruita. E la conoscenza che l’autrice ha dell’animo umano, eccezionale. Brava, la Pineiro, non la conoscevo.

Un romanzo perfetto, a mio parere, che vi consiglio assolutamente di leggere.

 

“La collina dei conigli” di Richard Adams (BUR)

Il libro è uscito in Italia nel 1975, e il film d’animazione nel ’78. E io me li ero persi entrambi. Be’, ho recuperato in questi giorni, leggendo con avidità il romanzo.

Proprio bello.

Ho imparato un sacco di cose, sulla vita dei conigli, certo (l’autore si era documentato moltissimo), e sulla vita di noi tutti. Le guerre (Adams ha studiato Storia a Oxford), le alleanze, le dinamiche psicologiche di leader e di sottoposti, il coraggio, la paura: tutto attraverso gli occhi di un drappello di avventurosi conigli che migra in cerca di un avvenire più sicuro.

Mi sono preoccupata insieme a loro, ho condiviso spaventi e sorrisi, speranze e delusioni. Ho adorato Kehaar, il gabbiano che diventa loro amico, col suo modo di esprimersi esilarante. Ho amato perdutamente Quintilio, il coniglio sensitivo, con le sue visioni. Ho stimato Moscardo, il loro condottiero, con le sue limpide insicurezze. Ho fatto amicizia con tutti i personaggi, che sono ancora qui con me, presenze forti e indimenticabili.

Un romanzo epico, davvero appassionante. Certo, lo stile è un po’ vecchiotto, e il libro forse è un po’ lunghetto, ma è assolutamente da leggere.

“La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin” di Enrico Ianniello (Feltrinelli)

Fiuuuu, fiuuuu, truìììì. Toooììì-ìììììì-ìììtòòòòòò! Pitiùùùùùùùùù!

Scusate, sto usando il fischiabolario per comunicare come Isidoro, il ragazzino protagonista di questo romanzo appena letto.

E com’è, questo romanzo?

De-li-zio-so.

Non conoscevo l’autore, confesso che l’ho incontrato grazie a una promozione Feltrinelli per cui con 9,90 euro si portano via due libri. Mi ha ispirato il titolo, mi hanno invogliato le prime righe, ed eccomi qua a parlarvi di Ianniello e del suo primo romanzo, pubblicato quattro anni fa. Ha vinto, tra gli altri, il Premio Campiello Opera Prima, e si è aggiudicato anche un bel posticino nel mio cuore.

Un romanzo delizioso, dicevo. Scritto bene, con dentro un po’ di dialetto napoletano, un po’ di genio e un po’ di poesia. Più un pizzico di follia e parecchio sentimento. E una bellissima, originalissima idea di fondo.

Mi ha ricordato Alessandro Barbaglia, col suo Atlante dell’Invisibile.

La trama non ve la racconto, sappiate soltanto che catturerà il vostro lato bambino, e anche il vostro lato adulto, e non li lascerà più andare. E, a libro finito, resterà con voi a fischiettare ancora per molto tempo. Io mi sono anche commossa, ma non ditelo a nessuno.

“L’Atlante dell’Invisibile” di Alessandro Barbaglia (Mondadori)

“Sai perché non mi convince il modo in cui trattiamo il nostro pianeta, Teresa? Perché non ne sappiamo niente. È fatto al 71 per cento di acqua, capisci Teresa, d’acqua! E noi lo chiamiamo Terra. (…) Significa che l’idea che il mondo sia fatto di qualcosa di fluido, che scorre, si muove e cambia proprio non l’hai capita”.

* * *

“Si fanno così!” rise Elio, e mostrò a Teresa un cacciavite.

“Con il cacciavite?”

“Sì. A stella. Con il cacciavite a stella. Si va su in cielo, in alto, alto, alto, e quando arrivi proprio al limite che te la senti addosso sulla pelle, la notte, allora col cacciavite buchi il buio e senti pufffff. Un po’ si sgonfia, il buio, come un pallone bucato, e vedi la luce che c’è al di là. Che arriva fin da te. Ed ecco che hai fatto una stella.”

* * *

Non mi capita spesso di sottolineare un testo, ma se lo faccio significa che ne sono entusiasta.

La mia copia dell’Atlante dell’Invisibile è piena di sottolineature. Perché Barbaglia sa vedere le cose con un occhio da poeta, o da bambino, o da genio, che poi sono la stessa cosa.

Ma non è solo poeta, bambino, o genio: Barbaglia è anche musicista. Perché la sua scrittura canta. Non c’è una singola frase, un singolo periodo, che non siano scritti in musica, che non suonino perfettamente. Lui scrive su un pentagramma, non su un quaderno a righe. Ed è un piacere leggerlo.

Uno che si definisce “poeta”, a me sta subito antipatico. Ma Alessandro Barbaglia, un poeta, lo è per davvero.

Insomma, dopo aver letto il suo primo libro, La locanda dell’ultima solitudine (bellissimo) mi sono buttata a capofitto su questo. Bellissimo anche lui. Di una bellezza imperfetta, secondo me, perché le cose scritte col cuore, perfette non lo sono mai. Se si sta dietro ai battiti, non si può dar retta anche alle obiezioni di qualche neurone con la mania dell’ordine. Ci sono un po’ troppe storie dentro la storia, ecco. Avrei preferito leggerne una per volta, ciascuna nel proprio romanzo. Ma, forse, l’importante è il profumo che un libro ci lascia addosso. E il profumo dell’Atlante dell’Invisibile è magico, così buono che ti viene da mangiarlo.

“Corniche Kennedy” di Maylis de Kerangal (Feltrinelli)

Quando avevo letto, anni fa, Riparare i viventi, della stessa autrice, ne ero rimasta incantata. Una storia difficilissima, narrata attraverso una scrittura incredibilmente forte e vibrante. Bellissimo, tra i miei romanzi preferiti in assoluto.

Così l’altro giorno ho preso il suo ultimo libro: Corniche Kennedy.

Molto, molto bello anche questo. Meno dell’altro, secondo me, perché in questo l’autrice si fa un po’ prendere la mano dalla sua scrittura vertiginosa (così la descrive la traduttrice, e io concordo) e le prime pagine risultano un po’ faticose, troppo cariche. Scritte in modo pazzesco, ma dopo un po’ stancanti. Più avanti invece la de Kerangal si libera da questa specie di responsabilità stilistica, la storia decolla e anche il nostro respiro si fa più lieve.

La trama? Marsiglia. Una banda di ragazzi dai tredici ai diciassette anni si lancia dalla scogliera, sfidando la morte. Un poliziotto li osserva. Ma non è la trama, è la luce che emana questo romanzo, a incantare.

Luccicante, l’ha definito infatti un giornalista su Le Monde. Sì, luccicante, particolare, meravigliosamente raccontato. Da leggere, e rileggere.

“La quasi luna” di Alice Sebold (edizioni e/o)

Amabili resti, della stessa autrice, mi era piaciuto. (E non era male nemmeno il film).

L’altro giorno ho visto tra gli scaffali La quasi luna, il cui l’incipit è: “Alla fin fine, ammazzare mia madre mi è venuto facile”, e mi sono detta: lo leggo.

È la storia di una donna che, come promettono le prime due righe, uccide la propria madre. Anzianissima, malata nel corpo e nella mente, anaffettiva, francamente rompicoglioni, ma anche struggentemente desiderata, questa madre viene soffocata con un asciugamano, cosa che accade subito, nel primo capitolo. Il resto delle trecentocinquanta pagine è comunque interessante e avvincente, ma mi aspettavo di più. In certi punti ho trovato La quasi luna molto bello e profondo, in altri invece mi sembrava di leggere un romanzetto di bassa qualità. Anche la scrittura, mah, non scorre perfettamente, ho dovuto rileggere spesso le frasi, forse un problema di punteggiatura, forse di traduzione, non so.

Peccato: un’idea forte, buttata un po’ via.

P.S. Noto ora che oggi è la festa della mamma. Ops. 😀

“La donna di scorta” di Diego De Silva (Einaudi)

Un De Silva vintage, questo che ho appena letto. Ha uno stile meno fresco di quello a cui mi avevano abituata i suoi romanzi degli ultimi anni, meno ironico, meno giocherellone e disinvolto. Più cauto, forse.

La donna di scorta è stato pubblicato per la prima volta nel 1999, e questi vent’anni trascorsi si sentono.

Mi è piaciuto molto. Non è il De Silva che conoscevo, non del tutto, ma l’ho comunque molto apprezzato.

Un uomo sposato si innamora di un’altra donna. Una trama piccola, non certo nuova. Ma è raccontata con una sensibilità e una capacità di introspezione tali da renderla invece grande e originale.

Bravo, De Silva. Bravo oggi, e bravo anche ieri.

“Piattaforma” di Michel Houellebecq (Bompiani)

Non è uno scrittore che si fa amare facilmente, Houellebecq. Però scrive bene, molto, e scrive cose interessanti. Molto.

L’altro giorno mi sono imbattuta per caso, dopo aver letto anni fa Le particelle elementari, in Piattaforma, un suo romanzo sul turismo sessuale. “Talvolta straziante. Talvolta dolce. Talvolta cinico. Sempre, comunque, scomodo, polemico, ferocemente ironico” dice La Stampa in quarta di copertina. Confermo.

Il protagonista, Michel, un quarantenne parigino spento e apatico e solo (ed estremamente colto), dopo la morte del padre decide di fare un viaggio in Thailandia. Scegliendo appositamente questa meta per incontrare le prostitute locali, celebri per la loro struggente abilità. Ma, tra un salone massaggi e un bar erotico, conosce Valérie, una splendida e vitale parigina che non ha nulla a che fare con il mercimonio.

Tra profonde riflessioni e divagazioni, anche molto tecniche, sul turismo, sul sesso, sul marketing, sulla politica, sulle religioni, sulla vita stessa, l’autore ci racconta dell’amore tra Michel e Valérie. E ci regala un colpo di scena terrificante che cambia ogni prospettiva.

Il romanzo in alcuni punti appare un po’ pedante, ma giuro che non mi sono annoiata un attimo, ogni divagazione è condotta con così tanta intelligenza (e documentazione) da risultare avvincente quanto la storia d’amore stessa.

Insomma, l’ho letto molto volentieri, mi ha insegnato parecchie cose, mi ha fatto riflettere.  Cosa chiedere di più?

“E tu splendi” di Giuseppe Catozzella (Feltrinelli) “Il grido del gabbiano” di Emmanuelle Laborit (Rizzoli) “Eccesso di zelo” di Domenico Starnone (Feltrinelli)

Lo so, lo so, non vale commentare tre libri che non c’entrano nulla tra loro, tutti insieme nello stesso post, ma questa volta va così, vogliatemi bene lo stesso.

 

Di Catozzella avevo letto Non dirmi che hai paura, e mi era piaciuto molto. Invece E tu splendi mi è piaciuto, ma con un ma. Ho la sensazione che uno scrittore bravo come lui avrebbe potuto farne qualcosa di eccezionale. Invece, sì, è un buon libro, ma è un po’ disordinato, ci sono troppe cose, nessuna è veramente al suo posto.

 

Il grido del gabbiano, preso alla mia bancarella dell’usato, è un vecchio libro che va assolutamente letto. Non per lo stile, non per la trama (non è un romanzo, è una delicata e potente testimonianza), bensì per i contenuti, e la passione con cui sono raccontati. L’autrice è nata sorda (che è molto diverso dal divenirlo) e parla della sua vita. Leggetelo, leggetelo, leggetelo. E guardate anche in rete i video della Laborit.

 

Di Domenico Starnone avevo letto Via Gemito, Lacci e Scherzetto, e mi erano piaciuti. Bello anche questo, particolare, morboso. Uscito nel ’93, quindi vecchiotto anche lui, l’ho scovato alla bancarella insieme a Il grido del gabbianoe a un altro di Houellebecq che ho iniziato a leggere ieri sera e di cui vi dirò (per ora: bellissimo, ma sono solo all’inizio). È bravissimo, Starnone, davvero. Da leggere.

“Mio caro serial killer” di Alicia Giménez-Bartlett (Sellerio)

Io adoro l’autrice, e adoro il suo personaggio Petra Delicado, ispettore di polizia a Barcellona (adoro anche Barcellona, ma non c’entra). Già che siamo in fase di adorazione, adoro anche l’ironia che percorre i polizieschi di questa serie.

Mio caro serial killer mi è piaciuto, ma non l’ho adorato.

L’ho trovato un pochino stanco, senza un’idea fulgida di base, e mi sono mancate le parti sulla famiglia allargata di Petra che di solito trovo, con molto piacere e un sorriso, tra un’indagine e l’altra.

È un buon romanzo, perché Alicia Giménez-Bartlett è una bravissima scrittrice, quindi consiglio comunque di leggerlo. Anche solo per alcune perle che vi copio-incollo:

Non siamo pessimiste. Cerchiamo di anticipare i problemi. Gli uomini sono diversi, devono ficcarsi nei casini fino al collo prima di capire che qualcosa non va”. (Più che pessimiste, direi ansiose, ma il senso è quello).

Oppure: “Forse dovevo andare da uno psicologo, purificare il mio karma, trovarmi un guru orientale, leggere Paulo Coelho o arruolarmi nella legione straniera. Riflettei su quest’ultima possibilità, mi parve la meno insopportabile.”

“Le assaggiatrici” di Rosella Postorino (Feltrinelli)

La fascetta porta il consiglio di due autrici che amo. Michela Murgia: Leggete Le assaggiatrici. Fatelo, vi prego. E Donatella Di Pietrantonio: La voce dell’assaggiatrice cattura il lettore e non lo libera mai, per quanto è vera, tesa, penetrante.

L’ho letto. Bello. Veramente bello.

Parte da un’idea forte che si si ispira a una vicenda vera: dieci ragazze sono reclutate come assaggiatrici di Hitler. Ogni giorno assaggiano, prima di lui, la sua colazione, il suo pranzo, la sua cena, e sono obbligate a restare in caserma un’ora dopo ogni pasto per verificare che non muoiano avvelenate. Se sopravvivono, il Führer può mangiare.

Da qui parte anche la storia di un amore illecito, immorale, contraddittorio, terribile eppure potente. E di un altro amore, di segno opposto, ma altrettanto struggente.

È un bel romanzo, questo della Postorino, scritto molto bene, ben costruito, sobrio e nello stesso tempo appassionante. Leggetelo, vi prego.

“Manhattan Beach” di Jennifer Egan (Mondadori)

Leggere questo romanzo è stato come andare al cinema a vedere uno di quei filmoni sugli anni Trenta e Quaranta, con le navi da guerra, i marinai, Brooklyn, il jazz, i gangster, le bionde platinate alla Jessica Rabbit. Non perché sia scritto come una sceneggiatura, ma perché la storia è molto visiva, forse un po’ troppo, a scapito delle emozioni.

La protagonista è Anna, la prima donna palombaro della storia. Le parti in cui lei si immerge con lo scafandro, le ho trovate davvero avvincenti, avrei voluto che non finissero mai. Le parti sulle dinamiche emotive dei personaggi, insomma, le ho trovate tagliate un po’ con l’accetta.

È comunque un romanzo interessante, ben scritto, ricco di dettagli tecnici mai noiosi. Perde un po’ il rigore narrativo nelle ultime cento pagine (su un totale di cinquecento), con un paio di soluzioni non perfettamente credibili, ma resta solido e ben fatto.

Per l’ambientazione, e per la precisione quasi maniacale dei dettagli, mi ha ricordato Vita di Melania Mazzucco, che però mi è piaciuto e mi ha coinvolto infinitamente di più.

Manhattan Beach quindi è da leggere? Secondo me sì, se si fa finta di essere al cinema a vedere un bel colossal che dura parecchio. 🙂

“Dis-ordinary family” di Maurizia Triggiani e Marco Bottarelli (Sperling&Kupfer)

Viene proprio da volergli bene, a questi due che raccontano a cuore aperto, e con tanta sana ironia, la loro storia d’amore. Erano amici, poi sono diventati amanti, nel frattempo si sono presi, lasciati, ripresi, hanno pianto, hanno riso, si sono incazzati, soprattutto si sono abbracciati moltissimo – con il corpo e con l’anima – e poi sono diventati una bella famiglia allargata, con prole di varia provenienza. Ognuno con le proprie fisime, nevrosi, fissazioni, dal figlio preadolescente di lei che si esprime con un numero di decibel da stadio, alla sorellina appena nata che produce quantità di rifiuti organici da riempircelo, quello stadio, fino ovviamente agli scleri, così veri e condivisibili, dei due adulti. Ma il perno su cui ruota tutto è una determinazione pazzesca, tenera e splendida, a stare insieme per davvero e possibilmente per sempre.

Il libro, che non è un romanzo vero e proprio, nasce da una pagina Facebook in cui Maurizia e Marco l’anno scorso si sono raccontati, quasi ogni giorno, in una sorta di diario pubblico, finché il diario è diventato un libro.

La lettura di Dis-ordinary family è scorrevolissima, spesso divertente, con molte riflessioni profonde, intelligenti, spassionate. Si sente un po’, a dire il vero, che alcune parti erano state scritte per la pagina Facebook e solo successivamente sono state ampliate per trasformarle in capitoli del libro, quindi ogni tanto c’è qualche ripetizione o salto temporale, ma sono peccati assolutamente veniali.

Dis-ordinary family è una lettura che consiglio a chi vive, o progetta di vivere, in una famiglia allargata. A chi sta per avere un bambino, o progetta di averlo. E a chi vuole leggere di amore in un modo dis-ordinario, e anche un pochino stra-ordinario. 🙂

“Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, tradotto da Aldo Busi (Mondadori)

Nella mia bancarella dell’usato ho visto una copia di Alice nel Paese delle Meraviglie tradotta da Aldo Busi. Toh, mi son detta, interessante. L’ho comprata, l’ho letta.

Fastidio fastidissimo.

Forse non ho capito l’intento, forse non sono stata in grado di apprezzare l’alchimia, forse sono becera e ignorante, forse è un libro intraducibile, o forse ancora questa traduzione non mi è piaciuta e basta.

Perché non mi è piaciuta?

Primo, in ordine di apparizione, perché è vecchia. Cioè, usa termini e riferimenti che può capire solo chi è nato negli anni Cinquanta o Sessanta. Ci sono nata anch’io, eh, in quegli anni lì, ma appunto mi ha dato fastidio che fosse così datata e incomprensibile ai più giovani.

Secondo, fatto secondo me molto più grave, perché è spuria. Cioè usa termini misti, alcuni colloquiali, altri aulici, altri ancora gergali, senza la minima coerenza stilistica né un motivo valido. Ora, è vero che Alice nel Paese delle Meraviglie è il regno del nonsense, e che non ho davanti a me l’originale, ma tutto questo non giustifica un testo mal vestito.

Scrivevano i miei adorati Fruttero&Lucentini, a proposito della traduzione: “Per tradurre qualsiasi testo, applicate pure qualsiasi criterio vi piaccia. Non è affatto vero che certi testi debbano essere tradotti in un modo, e certi altri in un altro. Non esiste, in questo campo, alcuna regola a priori. Ma ne esiste una, ferrea, a posteriori: quale che sia il criterio scelto, esso va applicato fino alla fine. Se, a un certo punto, non vi riesce più di applicarlo, vuol dire che – adatto o no al testo – il criterio in questione era inadatto a voi”.

“A che punto è la notte” di Fruttero&Lucentini (Mondadori)

Durante le prime centocinquanta pagine ho dubitato di portare a termine la lettura, considerando che me ne aspettavano altre quattrocentocinquanta, di pagine, stampate a caratteri piccoli piccoli e fitti fitti. E se fossero state pesanti anche quelle? Poi, di colpo, mi sono innamorata di questo romanzo. Gli indizi, i sintomi dell’innamoramento c’erano già anche durate le prime, suddette, famigerate e mortifere centocinquanta pagine, perché la scrittura di Fruttero&Lucentini è meravigliosa, con quell’ironia sottile ed elegante e fulminante, quella che, appunto, mi fa innamorare di libri e persone. Però c’erano anche la noia, la fatica di alcuni brani, persino una certa autocelebrazione degli autori, che mi davano fastidio. A che (cazzo di) punto è, la notte? mi chiedevo esausta e irritata.

Invece sono felicissima di averlo letto tutto, è uno splendido poliziesco, ricco di colpi di scena, strutturato perfettamente, colto, interessante, geniale, divertente. Noiosetto all’inizio, sì, certo, ma poi incantevole.

Ora che sono arrivata alla fine, ripenso a quelle centocinquanta odiate pagine, e amo pazzamente anche quelle. Proprio vero che l’amore è una cosa strana.

“La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli (Mondadori)

Mi viene difficile parlare di questo libro. Ci provo.

In ordine sparso (che poi non è mai davvero sparso e casuale):

La scrittura è ottima, cosa che non accade spesso nei mémoir. Ci sono autori che hanno qualcosa di importante da raccontare, ma il loro stile narrativo non ne è all’altezza. In questo caso, invece, forma e contenuto sono perfettamente accordati.

L’argomento è straziante, ma al tempo stesso dolcissimo. In estrema sintesi: un ragazzo, alcolizzato, va a lavorare, come semplice addetto alle pulizie, in un ospedale per bambini con patologie gravissime.

Sia Daniele sia i piccoli malati camminano in compagnia della morte. Lui sembra cercarla, i bimbi invece tentano di sfuggirla. Ma, contro ogni logica emotiva, contro la logica della vita stessa, accade il contrario.

Una storia straziante, dicevo. Eppure credo sia giusto leggerla. Forse anche per ridimensionarci tutti, nei nostri dolori di ogni giorno.

Ci sono, in questo libro, parti meravigliose, come il rapporto tra il protagonista e Toc Toc, il bimbo malato che bussa con le nocche sulla finestra della sua cameretta per fare amicizia con lui. Toc Toc in realtà si chiama Alfredo, ma questo, Daniele, lo scoprirà solo dopo, quando sarà troppo tardi. Anche il rapporto di Daniele con i suoi genitori, e con i colleghi, è raccontato con una semplicità detonante. C’è qualche pagina invece, a mio avviso, un po’ sottotono dal punto di vista della tensione narrativa, forse un’edizione più breve sarebbe stata davvero perfetta.

Comunque. È un libro potente, devastante anche, a tratti molto zen, da leggere, eventualmente, con cautela.

“Pulvis et umbra” di Antonio Manzini (Sellerio)

La mia amica Simona mi aveva detto: secondo me Manzini ti piace. La prima volta, per distrazione, ho comprato, anziché Manzini, Malvaldi, ma l’altro giorno finalmente un Manzini vero me lo sono portato a casa. 🙂 Poi, complice un’influenza micidiale che mi ha costretto a stazionare per ore sul divano abbracciata alla coperta di pile e all’immancabile gatto da lettura, ho letto il suo Pulvis et umbra in un paio di giorni. Certo, avrei dovuto cominciare dal suo primo libro su Rocco Schiavone, ma i suoi sono romanzi autonomi, come certe serie televisive, che se anche ne vedi una ogni tanto capisci lo stesso.

In questo periodo, casualmente e stranamente, sto leggendo parecchi polizieschi.

Questo è ben scritto, brillante, percorso da una bella ironia. Una storia (duplice) interessante, ben costruita. Forse, in quanto duplice, un po’ lunghetta, o forse è colpa dei miei trentanove gradi di febbre, non so.

Mi è piaciuto? Sì.

Ne leggerò altri suoi? Non credo. L’unico autore di polizieschi di cui leggerei tutto, nonostante il genere non sia tra i miei preferiti, è Alessandro Robecchi. È un giudizio molto soggettivo, la qualità, obbiettivamente, è alta per entrambi, ma il modo di raccontare di Robecchi mi fa sentire sempre a casa. Una casa sobria, elegante, sempre col camino acceso.

“L’uomo di neve” di Jo Nesbø (Einaudi)

Be’, l’ho letto compulsivamente in soli tre giorni, giusto la durata della nevicata qui a Milano, quindi non posso dire che non mi sia piaciuto. Però.

Però, per quanto splendidamente costruito, e anche ben scritto, l’ho trovato un po’ barocco. Troppi colpi di scena, troppe scene pulp, troppe intuizioni, troppi effetti speciali. Troppo arredamento, insomma.

Io, per i thriller, ho un gusto più minimalista. Mi piace la tensione continua, ma non l’effetto circo.

Resta un romanzone di cinquecento e passa pagine assolutamente godibile, ma direi che, dopo aver letto, di Nesbø, anche Il pettirosso e Sete, mi fermo qui.

(Il film, non lo guarderò nemmeno sotto tortura, perché, se mi è sembrato eccessivo il libro, non oso immaginare cosa potrebbe essere il film). (No, non è vero, probabilmente lo guarderò, perché sono curiosa di scoprire cosa hanno tenuto, cosa hanno cambiato, insomma come si sono regolati per la sceneggiatura).

 

“Follia maggiore” di Alessandro Robecchi (Sellerio)

La macchina fa il suo rombo continuo e tranquillo, il buio le sfreccia intorno, l’autostrada è quasi sgombra, i camion scorrono via come i grani di un rosario, come i piattini di sushi sui nastri trasportatori al bancone“.

Capito perché io amo Robecchi? Non dice che l’auto, banalmente, sfreccia, dice che è il buio a sfrecciarle intorno. E l’accostamento rosario-sushi? Dai, scrive proprio bene, quest’uomo, e vi ho citato solo le prime quattro righe del suo nuovo romanzo.

Finito di leggere ieri sera, e ovviamente, come sempre con Robecchi, apprezzato molto. Non solo per la scrittura, anche per la storia in sé, e soprattutto per l’intimità che l’autore crea tra noi e i suoi personaggi, con un lessico famigliare che poi diventa anche il nostro, mentre ci viene fornita la chiave d’accesso per tradurre i codici di quelle piccole conversazioni segrete, o di quei pensieri che sono un po’ dei tormentoni, comuni a persone di carta o di carne.

Un poliziesco ambientato a Milano, nella pioggia, tra i rimpianti dei personaggi, esplorando il mondo dell’usura, quello della lirica, e quello della gente qualunque.

Interessante, profondo, da leggere. Perfetto col freddo di questi giorni.

“Il morso della reclusa” di Fred Vargas (Einaudi)

Fred Vargas è sempre Fred Vargas, e io amo questa eccellente autrice. Poi, Il morso della reclusa secondo me non è uno dei suoi migliori romanzi, ma l’ho letto comunque con molto interesse e divertimento.

Tre anziani sono stati uccisi da un ragno velenoso, detto la reclusa perché se ne sta sempre nascosto. E, se se ne sta sempre nascosto, è molto difficile che morda qualcuno, tranne in situazioni particolari. La morte dei tre anziani sta per essere comunque archiviata come una fatalità, ma qualcuno non è convinto. “Nebbioso, beccheggiante, indolente. Sempre perso nelle sue vaghezze. È il commissario Adamsberg, capo dell’Anticrimine al tredicesimo arrondissement parigino”.

Il modo in cui l’autrice dipinge il commissariato è sempre delizioso, da Mercadet che soffre di ipersonnia e deve dormire ogni tre ore, al gatto che staziona sulla fotocopiatrice ma mangia solo se viene portato in braccio al primo piano, a Veyrenc che ha quattordici ciocche di capelli rosse e le altre nere, per via di un fatto accaduto da ragazzino, alla famiglia di merli in cortile nutrita a lamponi e plum-cake, a tutti gli altri, fino ovviamente al commissario stesso. Personaggi bizzarri, ma descritti con sorprendente sobrietà ed eleganza. Le sue trame sono sempre intriganti, raccontate con cura, immerse in un’atmosfera densa di scorie, di nebbia, e arrivano fino a noi attraverso la mente per niente lineare, e del tutto irrazionale, del protagonista.

È brava, Fred Vargas, è brava davvero.

“La lingua perduta delle gru” di David Leavitt (Mondadori)

E insomma, il mio cospicuo buono-regalo natalizio da spendere in libreria l’ho finito, e così l’altro giorno sono tornata alla bancarella dell’usato vicino a casa. (Leggere più di un libro alla settimana è un vizio costoso) :). Lì ho visto La lingua perduta delle gru e, siccome di Leavitt avevo letto anni fa Ballo di famiglia e mi era piaciuto tanto, mi sono portata a casa anche questo. Che mi è piaciuto tantissimo.

Bello, ben scritto, profondo, delicato, struggente. Intelligente. Vero.

Bello anche il titolo, tra l’altro.

Leavitt racconta una storia di amori acerbi e amori maturi, di rapporti tra genitori e figli, di omosessualità dichiarate a fatica o disperatamente nascoste, di paura e di coraggio, di scelte sbagliate e di scelte non fatte.

Bellissimo, veramente.

Per favore, se non l’avete letto, leggetelo.

“Negli occhi di chi guarda” di Marco Malvaldi (Sellerio)

La mia amica Simona, fine consigliera di libri, mi aveva detto: Leggi Manzini, secondo me ti piace.

Mi trovavo al supermercato, avevo fretta, sul banco dei libri ho visto Malvaldi, l’ho scambiato per Manzini, complice il blu delle edizioni Sellerio, oltre al mio essere geneticamente svaporata, ed eccomi qua a parlare di Negli occhi di chi guarda, arrivato dal carrello a casa per errore.

Be’, come errore è stato delizioso. Malvaldi (quello del BarLume, per intenderci) ha un modo di scrivere divertente, spesso originale, e racconta, al di là della trama, altre cose molto interessanti. È un chimico, e il suo punto di vista attraverso il filtro delle molecole mi affascina.

Il giallo in sé (che non fa parte della serie del BarLume) è gradevole e grazioso, anche se una certa idea, che non posso dirvi per non spoilerare, l’avevo già letta in un altro libro. Ma non importa: il romanzo si legge con facilità, fa sorridere, fa pensare, intrattiene piacevolmente. Proprio carino, ecco.

Domani comunque tornerò a cercare Manzini. E chissà, distratta come sono, cosa mi porterò a casa. 😉 (Ma no, è che prendere i libri al supermercato è diversissimo dal prenderli in libreria, dai, non è colpa mia, è che al super manca la sacralità, eh).

“La lunga attesa dell’angelo” di Melania G. Mazzucco (BUR)

L’attesa è lunghetta, diciamolo, ma ne vale la pena, come sempre con la bravissima Mazzucco.

Venezia, fine del Cinquecento. Seguiamo i ricordi del pittore Tintoretto in punto di morte. Il suo approccio anticonformista alla pittura, i rapporti difficili con i figli, e l’attaccamento morboso, al limite dell’incestuoso, alla figlia illegittima. E poi la guerra, la peste, ma anche i fasti, le gemme preziose, le sete e gli splendori incantati di Venezia.

Romanzo interessantissimo, raccontato splendidamente, con un finale davvero poetico e commovente.

Romanzo lungo, molto. Ammetto senza vergogna di aver sperato, due o tre volte, che stesse per terminare. Per poi, all’ultima, struggente pagina, desiderare di averne ancora tante da leggere.

“L’uomo di gesso” di C.J. Tudor (Rizzoli)

L’ho letto in anteprima, lo trovate in libreria dal 30 gennaio.

C.J. Tudor è un’autrice esordiente, ma scrive come una veterana del thriller. Il plot è ben congegnato, tutto torna, e tutto sorprende. Nonostante io non abbia amato le parti un po’ troppo (per i miei gusti) trucide, questo romanzo mi ha catturato dalla prima pagina all’ultima. Non una riga noiosa, divagazioni sempre interessanti e pertinenti, personaggi ben delineati. Brava ragazza, questa Tudor. Anzi, ora vado a googlare, sono curiosa di vedere che faccia abbia.

Ma dai. Una donna piuttosto giovane, sorridentissima, con i capelli biondo platino (color gesso?) e un taglio moderno e aggressivo. Mi piace.

Se avete voglia di un bel thrillerone un po’ pulp un po’ tenero, raccontato bene e con una bella ironia di fondo, leggetelo. È bella anche la copertina, col disegno fatto a gessetti sull’asfalto, ruvido ruvido come se fosse vero (meraviglie della tipografia moderna). 🙂

“Le nostre anime di notte” di Kent Haruf (Enne Enne Editore)

Eh, be’, è proprio bello.

Un romanzo breve, si legge in una o due sere. Anzi, non si legge: si respira.

Una storia minima, dialoghi scarni, nessun colpo di scena né intrigo né piroette stilistiche né niente. Eppure.

Si entra direttamente nella storia alla prima riga, e non si va mai più via.

Dolcezza, pace, e alla fine rabbia. E poi ancora dolcezza, ma più mesta, tenue.

Ne hanno parlato in tanti, di questo libro, e della Trilogia della Pianura, sempre di Haruf. Inutile che mi ci metta anch’io. Però leggetelo. Anzi, respiratelo. È aria purissima.

“Prima di me” di Julian Barnes (Einaudi)

Bello, a tratti anche geniale. Però antipatico.

Può essere antipatico, un libro? Per me sì.

Di Barnes avevo letto il prezioso Una storia del mondo in 10 capitoli e 1/2, così, quando ho visto in libreria Prima di me, mi son detta: lo compro subito. Senza accorgermi (ah, gli acquisti impulsivi) che non è un nuovo romanzo dell’autore: l’ha scritto nel 1982. E che il titolo originale è Before she met me: secondo me molto più interessante e adatto, ma temo meno efficace dal punto di vista del marketing (mi riferisco al frastuono mediatico del best seller Io prima di te).

Comunque. Un bel romanzo, morboso nei contenuti (un placido insegnante di storia impazzisce per la gelosia retroattiva nei confronti della sua seconda e amata moglie), ma per niente morboso nella forma. Freddo, freddissimo. E molto, molto snob, con quel piglio intellettualoide che personalmente mi infastidisce parecchio.

Ma è anche un romanzo geniale e tremendamente acuto, a volte irresistibilmente ironico, lo devo ammettere.

Ma, ancora, di trame del genere ne ho lette tante altre. Scritte però con maggior umanità, poesia, e meno antipatia.

Ecco.

Non è che l’abbia trovato brutto, assolutamente, anzi. Ma antipatico, molto.

“Uomini nudi” di Alicia Giménez-Bartlett (Sellerio)

Io adoro questa autrice. Ho letto quasi tutto quello che ha scritto, e il mio (suo) libro preferito, davvero meraviglioso, rimane Dove nessuno ti troverà (leggetelo, leggetelo, leggetelo).

Comunque anche Uomini nudi mi è piaciuto molto. Magari, ecco, invece di quattrocentoquaranta pagine me ne sarebbero bastate trecentoquaranta, perché in certi punti l’ho trovato un po’ ripetitivituccio, ma insomma io amo la Giménez-Bartlett e basta.

Uomini nudi (ma nudi per davvero, eh) racconta di un giovane professore di letteratura, illuminato e morigerato, che si trova all’improvviso disoccupato. E, per una strana combinazione, esce dalle rime in -ato e si trova a fare lo spogliarellista e l’escort.

Poi accadono un sacco di altre cose, compreso un colpo di scena tosto, ma, a parte la trama, è un romanzo scritto molto molto molto bene, e con una profondità di analisi dei personaggi rara.

Diciamo che, con cento pagine in meno, l’avrei definito un romanzo perfetto. Quelle cento pagine in più, gliele perdono perché la Giménez-Bartlett è la Giménez-Bartlett, e perché la carta con cui Sellerio pubblica i suoi libri è liscia e setosa che manco la lingérie di una spogliarellista. 😉

“Accendimi” di Marco Presta (Einaudi)

Che peccato. Una bellissima idea raccontata con un’ottima scrittura e una splendida ironia, e una conclusione così frettolosa, svogliata, forzata.

Per tutto il romanzo ho pensato: ma guarda com’è bravo l’autore a dosare la storia, a raccontarla senza spiegarla troppo, a mostrare sempre di più man mano che si va avanti a leggere, mantenendo un bell’equilibrio tra magia e realtà, tra detto e non detto. Così si fa.

E invece no. Ha organizzato una spiegazione di corsa, quasi si fosse disamorato del suo manoscritto, dimenticando tra l’altro di farmi conoscere meglio un paio di personaggi e tirandone fuori un altro così, di botto, un deus ex machina, okay, ma insomma uffa. Mancano almeno cinquanta pagine, per finire davvero e bene questo romanzo.

 

Peccatissimo. Anche perché L’allegria degli angoli, sempre di Marco Presta, l’avevo letto e mi era piaciuto tanto, dall’inizio alla fine, ed ecco il motivo per cui l’altro giorno ho comprato questo, carica di entusiasmo e aspettative.

 

Insomma, se volete leggere un bel romanzo, scegliete Accendimi fermandovi prima delle ultime venti o trenta pagine, e immaginatevi voi, con calma, come finisce. Va benissimo: anche così merita di essere letto, e si salvano poesia e magia.

 

Se invece lo volete leggere fino alla fine, e poi come me ci rimanete male, non dite che non vi avevo avvisato. 😉

 

 

 

“Non ci resta che correre” di Biagio d’Angelo (Rizzoli)

Chi mi conosce bene sa che per terrorizzarmi basta dirmi: “Discipliiiinaaaa, sacrifiiiiciiiii, alzarsi presto la mattiiiiinaaaa”. Eppure, Non ci resta che correre, dove le tre suddette minacce sono le fondamenta del testo, l’ho letto davvero volentieri, per niente terrorizzata, anzi.

È un libro dedicato a quelle persone che escono di casa all’alba e vanno a correre per chilometri. I cosiddetti runner. Ma non soltanto a loro: è un testo ricco di belle riflessioni sulla corsa, e anche sulla vita. La scrittura è fresca e scorrevole, e non ci si annoia mai. È anche pieno di parti tecniche, ma sono raccontate così bene e con intelligenza, da risultare interessanti. Mentre lo si legge, anche ai pigri più irriducibili viene quasi (ho detto quasi, eh) voglia di provare a correre, a entrare in quel mondo di marziani che fanno fatica, una fatica tremenda, una fatica assurda, ma ne sono felici e non vedono l’ora di farne ancora. (Non per niente un’associazione di runner si chiama, per l’appunto, Podisti da Marte).

Risultano simpatici, questi marziani. Risulta simpatico l’autore, che ho conosciuto capitando alla presentazione del suo libro.

Io resto terrestre, e se corro è soltanto per accaparrarmi l’ultima fetta di crostata nella pasticceria sotto casa, però vi consiglio, se siete marziani o solo curiosi di scoprire nuovi mondi alieni, di leggere questo libro. A correre si fa fatica, a leggerlo no. 🙂

“L’amico di famiglia” di Irwin Shaw (Bompiani)

Pescato senza grandi aspettative alla bancarella dell’usato. L’avevo catalogato mentalmente tra i libri di riserva, da tenere lì che non si sa mai. Catalogazione errata: L’amico di famiglia, l’ho divorato.

Scritto nel 1981 da un autore nato nel 1913, si legge senza sentire il peso del tempo. La scrittura è scorrevolissima e moderna (Shaw è un celebre drammaturgo, oltre che romanziere. Suo, tra gli altri, il famoso I giovani leoni, del 1948).

La trama è originale e perfettamente costruita. “New York, un venerdì sera in casa Strand. L’atmosfera è la solita: Allen, cinquantenne professore di storia, osserva fiero e compiaciuto la bella moglie Leslie; Eleanor, giovane e attraente career-woman, stuzzica il fratello Jimmy che ha scelto di vivere libero con la sua chitarra. All’improvviso, il campanello della porta: è Caroline, la figlia minore, che sorregge uno sconosciuto. Sono entrambi coperti di sangue”. Niente di grave, ma quel sangue scorrerà, per un anno intero, in varie forme, metaforiche e non, tra gli Strand. Fino ad assumere un ruolo purificatorio e sorprendente.

Un bel romanzo, che non annoia mai. La curiosità divorante di scoprire fino a che punto Russell Hazen, lo sconosciuto diventato poi un amico, si insinuerà nella famiglia e nelle sue dinamiche, tiene davvero incollati alle pagine. E il passato di drammaturgo di Shaw rende i dialoghi e le scene davvero godibili.

Bello, da leggere.

“Il grande elenco telefonico della Terra e pianeti limitrofi (Giove escluso) di Gianluca Neri (BUR)

Avete presente quando iniziate a leggere un nuovo romanzo e non vi prende? E allora ne provate un altro e, niente, nemmeno quello vi piace?

A me è successo l’altra sera. Un libro l’ho scartato dopo tre pagine, sbuffando insofferente. Con l’altro mi sono avventurata fino a pagina quaranta: volevo dargli (e darmi) ancora una possibilità, ma non c’è stato verso.

Così ho guardato dritto negli occhi Il grande elenco telefonico della Terra e pianeti limitrofi (Giove escluso) che tengo sullo scaffale dei miei libri preferiti, accanto al letto, e mi son detta: Okay, ti rileggo per la terza volta, con te vado sul sicuro.

Dopo mezz’ora svegliavo il vicinato con le mie risate. Lo stesso la sera dopo.

Ma Il grande elenco telefonico della Terra e pianeti limitrofi (Giove escluso) non è soltanto un libro satirico: è soprattutto geniale. Davvero. No, dico, avete mai letto un romanzo di fantascienza, molto articolato peraltro, che viene raccontato al lettore esclusivamente attraverso il dialogo tra due personaggi che parlano al telefono? Senza voce narrante, senza soporifere descrizioni di com’era il cielo, di com’erano le nuvole, e di com’era eventualmente la galassia? Solo loro due, uno (il terrestre) dal suo cordless, l’altro (l’alieno) da una cabina telefonica. E le cose che si dicono, signori miei. E come le dicono. A volte in maniera sottile e acuta e rivoluzionaria, a volte in modo così sgangherato che quasi commuove. Una delizia.

Il grande elenco telefonico della Terra e pianeti limitrofi (Giove escluso) è un tributo a Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams. Ma è anche un tributo all’intelligenza e al buon umore.

Ovvio, per apprezzarlo completamente è meglio essere dotati di uno spiccato senso dell’umorismo, di una venerazione per Douglas Adams, e di uno spirito inguaribilmente infantile. Però, anche se non aveste questo allegro arsenale nel vostro dienneà, vi perdereste, sì, le risate, ma apprezzereste comunque il romanzo per la sua straordinaria intelligenza.

O per la sua efficacia quando vi sentite molto malmostosi. Questo libro è in grado di restituirvi la fiducia nella specie terrestre.

(Ah, tra l’altro è stato il primo romanzo in assoluto scritto in progress, prima di diventare un libro di carta, su Facebook, e seguito da oltre diecimila fan. Anche questo è genio).

P.S. Che poi, mentre mettevo i tag, ho visto che c’erano già, quindi probabilmente di questo libro, qui su Colibrì, ne ho già parlato. Ma ogni rilettura è una nuova lettura. 😉

“Biografia della fame” di Amélie Nothomb (Voland)

“Una divorante fame di vita per un’autentica, singolare, eccentrica autobiografia. Gli anni del nomadismo familiare al seguito del padre diplomatico: Giappone, Cina, Bangladesh. Il tutto raccontato con una lingua che ha raggiunto la piena maturità. Un libro toccante e bellissimo” dice la quarta di copertina. Confermo. E aggiungo: è anche un libro molto elegante, a volte irritante, ma sempre interessante, che si legge in due sere, con la fame di leggerne ancora e ancora e ancora. Mi ha ricordato un pochino La più amata, di Teresa Ciabatti.

Bello, sono contenta di averlo incontrato.

“Donna per caso” di Jonathan Coe (Feltrinelli)

Abbiamo trovato un accordo, io e il signore che gestisce la bancarella dei libri usati vicino a casa mia. Io gli porto i romanzi che reputo indegni di occupare spazio a ufo negli scaffali strapieni della mia libreria, e lui me ne dà altri. Facciamo scambio, insomma. Così, in cambio di uno sciapo best seller, ho preso Donna per caso.

Di Coe avevo già letto La famiglia Winshaw e La casa del sonno, che mi erano piaciuti. Questo piccolo romanzo mi ha molto colpito: per la protagonista, Maria, una ragazza con un carattere molto particolare e inedito, e per lo stile della narrazione, con quell’umorismo sottile ed estremamente british che adoro. “Jonathan Coe vi mette a disposizione un suo doppio comico – il narratore – un io solerte e meditabondo, compassato e invasivo” dice la quarta di copertina. Di più: l’autore si intrufola nel suo stesso racconto (lo fa in modo simile anche Pennac nel suo delizioso Ernest e Celestine) e condivide con noi i suoi dubbi stilistici, le sue scelte narrative, fino a confessare con candore, a un certo punto, che vuole concludere la storia di Maria perché non ha più nulla da dire. Ha tantissimo da dire, ovviamente, e lo dice benissimo.

Un bel libro, particolare, e scritto (e tradotto) splendidamente.

Mi è arrivato per caso, ed è stato un caso fortunato.

“Il fosso” di Herman Koch (Neri Pozza)

Di Koch (non quello del bacillo: lo scrittore) avevo letto La cena e Odessa Star, e mi erano piaciuti entrambi. Di più La cena.

Il fosso è un bel romanzo. Molto.

Ottima scrittura, e splendida traduzione di Giorgio Testa.

Il protagonista, sindaco di Amsterdam, è un personaggio raccontato con profondità quasi divinatoria. Si entra nella sua mente, nei suoi meccanismi spesso biechi, e ci si sente a casa, si conoscono tutti i cassetti, le antine, persino lo sporco sotto il tappeto.

Un uomo pensa che sua moglie lo tradisca. Non ne ha nessuna prova concreta, ma il sospetto diventa ossessione. E, fino a metà romanzo, non accade nulla, se non nella sua testa. Poi, improvvisamente, tutto si muove, scricchiola, precipita, travolge. Alcuni pezzi del puzzle, che l’autore ha sparso in sapiente disordine, trovano il loro posto. Altri, no. Al lettore (o perlomeno, a me) restano dubbi, ma di quei dubbi stuzzicanti, che fanno proseguire la lettura del romanzo anche giorni dopo la parola fine, anche a libro chiuso.

Bello, Il fosso, mi è piaciuto proprio. Herman Koch tra l’altro – sono andata a cercare la sua immagine su Google – ha una bella faccia, intelligente e sorniona, da vecchio gattone, che mi ha reso ancora più gradito il suo romanzo.

“Ognuno potrebbe” di Michele Serra (Feltrinelli)

A me Michele Serra, come scrittore, piace proprio tanto.

Sa mescolare piume e macigni, sa mettere in musica le prosa, conosce l’arte dell’ironia sommessa.

Ognuno potrebbe, l’ho letto in una sera. Mi è piaciuto, dalla copertina fino all’ultima riga di testo.

La storia non è eclatante. Non cerca di essere dirompente, non cerca di essere niente. È un testo malmostoso come pochi, eppure (o forse per questi motivi) è molto bello.

Lo descriverei, questo libro, come un volto. Che non parla, ma racconta tante cose di ognuno di noi.

“La guardarobiera” di Patrick McGrath (La nave di Teseo)

Va detto che è stata una lettura sfortunata. Durante la prima metà del libro avevo l’influenza, e non è che con l’influenza si sia molto ben disposti verso il mondo.

Guarita dall’influenza, una sera, all’improvviso, il file de La guardarobiera è sparito senza causa apparente dal mio ereader, e mi son detta: Bah, si vede che era destino (atteggiamento fatalistico che non avrei mai avuto se il romanzo mi stesse piacendo molto). E sono passata, con un segreto sollievo, a un altro libro.

Dopo un paio di settimane e qualche riavvia del device, l’ebook è ricomparso, così, di sua iniziativa. Ho ripreso a leggerlo, e ieri sera l’ho finito.

Avevo letto, di McGrath, Follia e Il morbo di Haggard. Mi avevano intrigato. Questo invece, mi dispiace dirlo, ma mi ha un po’ annoiato.

Londra, gennaio 1947. Un attore molto amato muore in circostanze poco chiare, e la moglie Joan, guardarobiera del teatro, entra in un tunnel di dolore e follia. Poi la donna incontra un giovane attore, che recita la parte del marito scomparso, e insomma accadono un po’ di cose. Ma accadono male, secondo me. Nonostante abbia trovato l’idea di fondo interessante, e alcuni brani gradevoli, il romanzo non mi ha preso. Bah. Forse aveva ragione il mio ereader a farlo scomparire.

“L’interpretatore di sogni” di Stefano Massini (Mondadori)

Dai sedici ai venticinque anni di età ho letto decine e decine di saggi sulla psicanalisi. Volevo scoprire tutto di me e del mio essere un po’ bislacca, e naturalmente volevo imparare a capire bene gli altri. All’epoca, soprattutto i ragazzi. 😉

Così, quando l’altro giorno mi hanno regalato L’interpretatore di sogni, mi son detta: ma sì, faccio un tuffo nostalgico nella mia adolescenza di lettrice, questo libro mi incuriosisce. Già ho letto, l’anno scorso, La scelta di Sigmund di Carlo A. Martigli, interessante romanzo in cui Freud psicanalizza mezzo Vaticano, vediamo un po’ cosa mi racconta quest’altra storia. Non ne sapevo nulla, a me piace affrontare i libri senza leggere le prefazioni o le recensioni, che leggo solo dopo. Non sapevo se fosse un romanzo, un saggio, e non conoscevo l’autore.

Mi ci sono immersa.

Ne sono uscita ora.

La scrittura è molto curata, elegante, con un bel suono.

Si tratta (cito la definizione da una sinossi) di un “falso storico”, dove l’autore immagina, romanzando, il padre della psicanalisi mentre impara a interpretare i sogni dei suoi pazienti. Ma, e qui sta l’idea geniale e inedita, intanto interpreta anche se stesso.

Pare che Massini abbia impiegato sette anni per esaminare tutta la documentazione e creare questo accurato racconto, che è un po’ un saggio un po’ un romanzo.

Voi direte: Sì, okay, ma ti è piaciuto o no?

Nì. Nel senso che sono partita con molto entusiasmo: il primo capitolo, in cui Freud perde se stesso, è affascinante. Poi confesso che, dal decimo sogno interpretato in poi, il mio entusiasmo di lettrice si è un po’ spento. Ho trovato i capitoli troppo schematici: paziente, sogno, interpretazione. E poi di nuovo, paziente, sogno, interpretazione. Certo, ci sono anche parti sulla vita interiore di Freud, ma ne avrei volute leggere molte, molte di più. Forse perché, sapendo quasi a memoria L’interpretazione dei sogni, non ho trovato nulla di davvero nuovo nelle sedute coi pazienti, e invece mi avrebbe incuriosito l’interpretazione del personaggio.

Se invece voi avete trascorso un’adolescenza più serena della mia, senza iniettarvi in vena un’intera libreria di saggi sulla psicanalisi, probabilmente apprezzerete più di me questo interessante libro. 🙂

“La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita” di Philippe Delerm (Sperling&Kupfer)

Me l’ha regalato la mia amica Laura, dicendomi: Secondo me ti piace.

Sì, mi è piaciuto. È un delizioso librino di un centinaio di pagine che si legge in una sera. Elenca, con una sensibilità e un senso dell’osservazione rari, oggetti e situazioni piacevoli, un po’ nostalgici un po’ magici: dal suono della dinamo quando andiamo in bicicletta, allo sgranare i piselli, alle boule de neige, al caleidoscopio, alla prima sorsata di birra.

Sono riflessioni delicate eppure potenti. Scritte con immensa cura ed eleganza, finiscono sempre con una piccola frase che è un po’ poesia, un po’ filosofia.

Delizioso, davvero. Da regalare e regalarsi.

“La bastarda di Istanbul” di Elif Shafak (Rizzoli)

Mezzanotte: avevo appena comprato La guardarobiera di Patrick McGrath in versione ebook, entusiasta per la possibilità quasi magica di poter leggere il libro che si vuole così, immediatamente, in un click, a qualunque ora del giorno e della notte.

Ma il mio Kindle non l’aveva ancora caricato. Delusissima (e impaziente) ho cercato se nell’ereader ci fosse qualche libro che non avevo ancora letto. C’era, e non era nemmeno mio: l’avevo ereditato dal precedente possessore del Kindle.

Con aria mesta e anche molto prevenuta, mi son detta: Evabbe’, lo leggo, uff, se non c’è niente di meglio per stasera mi accontento di questo.

Non è stato un accontentarsi.

La bastarda di Istanbul è un romanzo molto interessante e anche piuttosto ben scritto. Qualche parte è davvero bella, qualche altra un po’ fuori tono o noiosetta. Ma, nel complesso, è un romanzo che si legge volentieri.

“Istanbul non è una città, è una grande nave. Una nave dalla rotta incerta su cui da secoli si alternano passeggeri di ogni provenienza, colore, religione. Lo scopre Armanoush, giovane americana in cerca delle proprie radici armene in Turchia. E lo sa bene chi a Istanbul ci vive, come Asya, diciannove anni, una grande e colorata famiglia di donne alle spalle, e un vuoto al posto del padre. Quando Asya e Armanoush si conoscono, il loro è l’incontro di due mondi che la Storia ha visto scontrarsi con esiti terribili: la ragazza turca e la ragazza armena diventano amiche, scoprono insieme il segreto che lega il passato delle loro famiglie e fanno i conti con la storia comune dei loro popoli”. Questa, la scheda del romanzo.

Lo consiglio? Sì, assolutamente.

Stasera però inizio a leggere La guardarobiera, che ora è nel mio Kindle e mi aspetta. 🙂

“Il problema dei tre corpi” di Liu Cixin (Mondadori)

Io adoro la fantascienza quando ha dentro tanta scienza. Il problema è che, di scienza, ne so davvero poco. Ma mi piace imparare, così, senza regole, leggendo romanzi. Da Arthur Clarke, per esempio, ho imparato molte più cose che dai libri di Fisica del liceo.

Nel romanzo di Liu Cixin (il maggior autore cinese di fantascienza) credo di aver capito l’uno per cento, per quanto riguarda le parti tecniche. E devo ammettere che verso la metà del libro la tentazione di scaraventarlo contro il muro c’è stata. Ma lo stavo leggendo sul mio Kindle, quindi niente lancio violento. 🙂

Eppure sono uscita dalla sua storia con una ricchezza di immagini e di riflessioni davvero immensa. Idee splendide, riferimenti storici interessantissimi, e originalità: una merce tanto rara e preziosa.

Non è un romanzo per tutti. Primo, ovviamente, occorre amare la fantascienza. Secondo, occorre non essere troppo esigenti su questioni come la descrizione e l’approfondimento dei personaggi, che qui sono tratteggiati in modo vaghissimo, o sulla costruzione della trama, che ogni tanto secondo me scricchiola un po’. Terzo, occorre essere molto, molto, molto curiosi e avidi di nuovi stimoli. Ma, se da ragazzi avete letto, come me, una bella quintalata di Urania, scommetto che Il problema dei tre corpi vi piace.

“La bella Otero” di Massimo Grillandi (Rusconi)

Leggo sempre con piacere, e interesse quasi morboso, le biografie. Così mi sono buttata sulle quattrocento pagine de La bella Otero, vita e amori di una ballerina spagnola che ha furoreggiato in tutto il mondo durante la Belle Epoque. Per lei si sono suicidate caterve di uomini innamorati, e altre caterve di finanze sono defunte per omaggiare la bella e ricambiarne i favori.

Volume interessante e riccamente documentato (fin troppo). Unici nei, per i miei gusti: una scrittura curata, lirica, sontuosa, ma un po’ greve e pomposa. E una certa superficialità nel raccontare alcuni fatti, che così narrati risultano incongruenti e poco credibili. Ma la biografia in sé è godibile e stimolante, e allo stile ci si abitua dopo un centinaio di pagine. Poi, vabbe’, mi sono sorpresa a formulare pensieri pomposissimi, tipo: Ora, suvvia, mi recherò a sorbire un delizioso e aulente caffè. 😀

Consigliato? Per chi ama le biografie, sì. Altrimenti, no.

“Cuore di seta” di Shi Yang Shi (Mondadori)

Dal punto di vista letterario, no, non mi è piaciuto. Ma, come testimonianza di un ragazzino cinese che è emigrato in Italia, sì.

Yang arriva in Italia con la madre, una dottoressa costretta, qui, a svolgere i lavori più umili. Il padre, un ingegnere, li raggiunge anni dopo, e anche lui, come del resto lo stesso protagonista, fa mestieri pesanti e a volte umilianti.

Ma Yang è tenace, tenacissimo, e punta in alto. Per sé, e per la sua famiglia.

Il mémoir di Shi Yang Shi percorre, oltre al tema dell’immigrazione, quello dell’omosessualità, della rivoluzione culturale cinese, della famiglia. Offrendo al lettore spunti molto interessanti, senza mai passare dalla noia.

Diciamo spassionatamente che, come romanzo, non vale niente. Come stimolo per comprendere, in forma di lieve assaggio, una civiltà così differente da quella occidentale, vale la lettura.

 

 

“Se consideri le colpe” di Andrea Bajani (Einaudi)

Non conoscevo l’autore, il merito è tutto della mia bancarella dell’usato, i cui scaffali non seguono le regole del marketing, bensì quelle del cosa arriva, lo espongo. E così ho incontrato questo libro.

Proprio bello. Ma tanto.

Delicato, commovente, interessante. E scritto meravigliosamente.

Una madre dalla personalità adorabile eppure terribile (mi ha ricordato “Aspettando Bojangles” di Olivier Bourdeaut) apre un’azienda in Romania, lasciando il figlio in Italia sempre più solo. Un percorso struggente a ritroso nel loro rapporto.

Nemmeno centosessanta pagine, si legge in un soffio, e lascia incantati.

 

“Un giorno perfetto” di Melania G. Mazzucco (Mondolibri)

Un libro perfetto.

Bellissimo, scritto benissimo, con una cura e una profondità di pensiero rare.

Le vicende dei personaggi si intrecciano e si dipanano nell’arco di ventiquattr’ore. Ognuno di loro affronta una morte – chi simbolica, chi reale – in un giorno di maggio.

Uno di quei romanzi che fanno provare gratitudine per chi li ha scritti.

Grazie, Melania Mazzucco.

Non ho altro da aggiungere, se non: leggetelo, leggetelo, leggetelo.

“Il nocchiero” di Paola Capriolo (Feltrinelli)

Ma che bello. Ma che particolare. Ma che brava Paola Capriolo. Ecco, avevo messo tanti ma nel mio commento sul libro qua sotto, però erano dei veri avversativi (Chi dice ma, cuor contento non ha). Qui no. Qui è un po’ come quando si dice: Ma come ho mangiato bene! E devo dire che, col Nocchiero, ho mangiato benissimo. Una cena in un sala da pranzo dai soffitti altissimi, ricca di tendaggi damascati, velluti, colori cupi tra il bordeaux e l’oro antico, dipinti preziosi, magari di quelli dove antenati sconosciuti e un filino truci sembrano muovere gli occhi e seguire i movimenti degli ospiti, avete presente? Seduta a quel tavolo ho assaporato pietanze dalle ricette antiche, cucinate alla perfezione.

Paola Capriolo in questo romanzo ha uno stile antico, raffinato, che decora superbamente una piccola trama. Piccola, sì, eppure infinitamente vasta.

In un tempo immerso nel passato, un giovane uomo intravede, di una donna, solo un braccialetto d’argento a forma di serpente che le avvolge il braccio. Ne è attratto in modo irresistibile e profondo. Da quel momento si dipana una storia strana, cupa, che abita il confine labile tra realtà e sortilegio.

Non ho problemi ad ammettere che, il finale, non sono sicura di averlo capito, e per di più non sono nemmeno sicura che ci fosse qualcosa di preciso da capire. Nel senso che io ho percepito pensieri e sensazioni intensissimi. E sono stata soddisfatta così. Tant’è che il sapore che mi è rimasto, alla fine di questo strano romanzo, è così buono che mi porterà, domani, in libreria ad acquistare altri libri della Capriolo.

“Da dove la vita è perfetta” di Silvia Avallone (Rizzoli)

Mi era piaciuto Acciaio, e così l’altro giorno mi è venuta voglia di leggere anche questo nuovo romanzo della Avallone: Da dove la vita è perfetta.

L’ho apprezzato, ma con un paio di ma, appunto.

Ma n°1: per la prima metà del libro, di ogni capitolo ho dovuto rileggere tutta la prima pagina, perché l’autrice non svela subito di quale dei suoi personaggi stia raccontando. Ed è una cosa, a mio avviso, fastidiosissima. Non si riesce a visualizzare né a vivere la vicenda narrata, perché è impossibile (o quantomeno difficile) dare un volto, e una personalità, al protagonista. Ci si sente ciechi, insomma. Poi, un po’ mi sono abituata a questo sistema, un po’ avevo ormai più familiarità coi personaggi e quindi li riconoscevo dopo le prime righe, e allora il fastidio e la cecità si sono attenuati. Devo ammettere però che, se la scrittura non fosse stata così accurata, per il nervoso avrei smesso di leggere dopo appena una cinquantina di pagine.

La scrittura dicevo, e il ritmo, sono decisamente buoni, la Avallone riesce a emozionarci, a farci provare una forte empatia coi personaggi, ad andare abbastanza in profondità. Abbastanza ecco, ma (Ma n°2) non a sufficienza: alcuni caratteri, seppur secondari, certo, sono tratteggiati secondo me un po’ troppo superficialmente, mi sarebbe piaciuto conoscerli meglio.

La vicenda è interessante. Bologna, estrema periferia, tra i cosiddetti bolofeccia. Famiglie che vivono in un quartiere degradato, malato. Le storie di due maternità che si sfiorano, così incredibilmente diverse eppure così simili.

Ed eccomi al mio Ma n°3: è indefinibile, è quella sensazione che si prova quando, arrivati all’ultima riga di un libro, ci si dice: è scritto bene, è ben fatto, anche il finale mi è piaciuto, ma non sono del tutto soddisfatta.

“Il mare dove non si tocca” di Fabio Genovesi

E insomma, Genovesi ha il magico potere di farsi voler bene. Lo si legge, e vien voglia di andarci insieme al bar a chiacchierare tutto il pomeriggio.

Succede con Chi manda le onde, succede quasi di più col nuovo romanzo Il mare dove non si tocca. (Anche se, dal punto di vista letterario, ho preferito il primo).

Ha uno stile tutto suo, il nostro amico Fabio, apparentemente ingenuo, ma ogni tanto ti spara lì un pensiero laterale, una riflessione a cui nessuno aveva mai pensato, un’osservazione così acuta che ti fa saltare sul divano mentre leggi.

Il mare dove non si tocca secondo me ha alcune parti geniali, tipo l’idea di risvegliare dal coma il padre del protagonista leggendogli i manuali, tutti i manuali, dall’allevamento dei lombrichi a come si costruisce un buon pollaio. E tipo altre che non vi dico sennò vi rovino il piacere della lettura. Comunque, leggetelo, questo nuovo libro del nostro amico Fabio. Vi piacerà, vi commuoverà, vi farà sorridere, vi farà pensare, e vi farà voler bene, tanto, all’autore.

“Vita” di Melania Mazzucco (Mondolibri)

Di Melania Mazzucco avevo letto Limbo e Sei come sei, che mi erano piaciuti parecchio. Meno, Il bacio della Medusa. Poi sono incappata in questo Vita, e mi son detta: perché no?

Sono arrivata poco fa all’ultima delle sue quattrocento pagine.

È un’autrice speciale, la Mazzucco. Scrive bene, con cura e sobrietà, e si documenta benissimo.

In questo caso il romanzo (che è anche in parte un documento storico) racconta la storia dei Mazzucco, di quando, ai primi del Novecento, sono emigrati in America. Protagonisti Vita e Diamante, due bambini che salpano, soli, verso New York.

La Mazzucco ci conduce in quel mondo, in quell’epoca, con mano sicura. Ci emoziona, ci mostra la realtà, ce ne fa percepire persino gli odori e rende palpabili le ferite del corpo e dell’anima. Brava. Molto brava.

Però ho trovato la lettura un po’ faticosa. Ogni tanto sbirciavo per vedere quanto mancava alla fine, pensando che fosse un libro importante, ben fatto, che mi avrebbe arricchito di fatti e pensieri, ma che a tratti era un po’ soffocante. Forse la colpa è di Fabio Genovesi sul comodino (nella sua versione libresca, intendo 🙂 ) col suo nuovo romanzo che non vedo l’ora di leggere. E magari quelle quattrocento pagine di Vita le ho vissute con troppa impazienza.

Comunque, se non avete sul comodino romanzi che vi aspettano, armatevi di tempo e dedizione, e leggete questo. Merita.

“I ferri del mestiere – Manuale involontario di scrittura con esercizi svolti” di Fruttero&Lucentini (Einaudi)

Io li adoro, quei due. Sì, certo, ormai non sono più con noi sulla Terra, probabilmente stanno progettando qualcosa di nuovo passeggiando tra i ghiacci di Urano, ma insomma: che bravi.

Il loro primo romanzo che ho letto, L’amante senza fissa dimora, mi ha stregato. Ah. Poi ho divorato più o meno tutto quello che hanno scritto, ma questo saggio sulla scrittura mi mancava. Si tratta di una raccolta, organizzata e curata da Domenico Scarpa, di scritti, lezioni, racconti, aneddoti, pubblicazioni varie che F&L hanno prodotto in un lungo arco di tempo.

Una lettura piacevolissima, a tratti entusiasmante per la genialità.

Colti, brillanti, caustici, divertenti, quei due. Una meraviglia. E leggerne i pensieri, su I ferri del mestiere, fa rimpiangere di non aver avuto il tempo e l’occasione, prima che se ne andassero a vivere in uno chalet su Urano, di aver bevuto con loro un caffè.

“Il mestiere dello scrittore” di Murakami Haruki (Einaudi)

L’ho comprato un po’ perché amo Murakami, un po’ perché sto preparando le nuove lezioni per il mio corso di scrittura creativa e, qualche perla di saggezza anche da Murakami oltre che dagli altri autori, mi fa piacere aggiungerla.

In realtà il libro, godibilissimo, è più una sorta di sua biografia. Racconta molte cose di sé, della sua vita, soprattutto del suo carattere. E, per chi ama i suoi romanzi ed è curioso di sapere chi c’è dietro le pagine amate, è una lettura davvero interessante. Poi, perle di saggezza sulla scrittura ce ne sono comunque, e questa è la mia preferita, perché vale sia per lo scrivere che per la vita in genere: “Quando intraprendi una cosa che ritieni molto importante per te, se in essa non trovi un piacere e una gioia naturali e spontanei, se mentre la fai non senti un’eccitazione in petto, significa che c’è qualcosa di sbagliato, di poco armonioso. In quei casi bisogna tornare al punto di partenza e liberarsi completamente di quegli elementi innaturali che ostacolano il piacere“.

Unico neo: l’autore insiste molto su vari torti che ha subito, polemiche e critiche in cui si è trovato coinvolto, e questa cosa di mettere nero su bianco il suo disappunto l’ho trovata un po’ pesante nonché pedante. Ma siccome queste parti ci fanno curiosare tra le pieghe del suo carattere, le prendo per quello che sono. Paturnie d’autore. 🙂

“Il patto” di Jodie Picoult (HarperCollins)

Non c’è niente da fare, la Picoult è proprio brava. In ogni suo romanzo c’è sempre un’idea forte, che lei racconta e dipana con grande maestria. Una scrittrice vera, insomma.

New Hampshire, fine anni Novanta: una ragazzina viene uccisa, e l’unico sospettato è il suo ragazzo. I due sono cresciuti insieme, in un rapporto meraviglioso ma esclusivo e morboso. Anche i loro genitori hanno vissuto in simbiosi: vicini di casa, migliori amici, praticamente parenti. Tutto un groviglio di legami in cui, alla morte di Emily, ognuno rimane impigliato fino alla lacerazione.

La verità, non la vuole sapere nessuno. Perché è troppo dolorosa, perché ce ne sono tante e il confine tra loro è labile, o perché, alla verità, non ci si è abituati.

Il patto, con le sue quasi seicento pagine che non si riescono a mollare, è uno di quei libri che non si leggono soltanto la sera, prima di dormire. Viene voglia di ritagliarsi uno spazio anche nel pomeriggio, o prima di cena, o in qualunque momento libero, perché la sua tensione emotiva è sempre alta. Magari la parte del processo è lunghetta, ma comunque brillante. Magari Chris, il protagonista diciassettenne, a volte si comporta un po’ troppo da adulto e risulta non perfettamente credibile, ma insomma Il patto è un libro che regala svago di ottima qualità.

Brava, la Picoult, mi è piaciuta anche questa volta.

“Un solo paradiso” di Giorgio Fontana (Sellerio)

Oh be’. L’ho finito di leggere due giorni fa e, a differenza del solito, non mi sono precipitata su Colibrì a scrivere cosa ne penso. È che non so cosa pensarne. Ci provo qui con voi. In ordine di apparizione, vi racconto i miei pensieri mentre lo leggevo.

Bella, l’immagine in copertina, molto. Del resto alla Sellerio sono sempre bravissimi a scegliere immagini.

Giorgio Fontana, uhmmm, devo aver letto qualcosa di suo, e dev’essermi anche piaciuto, ma non ne sono sicura.

Dai, inizio a leggere le prime pagine. Ehi, ma quanti due punti usa, quest’uomo benedetto? Lui scrive bene, eh, e io i due punti li amo, ma qui c’è un’infestazione in corso. Va be’, dai, non stiamo a pignoleggiare.

Toh, la storia si svolge a Milano. Belle atmosfere, molto ben descritte.

Noto con piacere che l’infestazione di due punti è stata sgominata dopo le prime pagine, meno male. Sì, scrive bene, questo Giorgio Fontana.

Uh, il jazz, io non ne so nulla. Un po’ mi affascinano, queste parti sulla musica, un po’ mi sento persa. Più affascinata che persa, comunque.

Ma guarda come racconta bene l’abbrutimento di questo suo personaggio. E le reazioni degli amici, della famiglia. Bravo.

Un po’ pedantino sui luoghi, eh. Rischia di annoiare.

Vediamo un po’ come va a finire.

Finito. Sì, un bel finale, coerente.

E allora, cosa ne penso, di questo libro?

Oh, non lo so.

 

“Le otto montagne” di Paolo Cognetti (Einaudi)

Ero diffidente, diffidentissima, prima di leggerlo. Un po’ perché detesto la montagna, un po’ per snobismo verso il premio Strega e i best seller in genere. Poi mi son detta: Eddai, leggilo, ché tu di natura sei fiduciosa, non diffidente. E anche curiosa.

Insomma, l’ho finito due minuti fa. E mi è piaciuto molto.

Intanto, mi ha piacevolmente sorpreso la scrittura: semplice (nel senso più nobile del termine) e scorrevole. Non un inciampo nel ritmo, non una frase faticosa o stanca. Gradevolissima.

Poi mi ha sorpreso, sempre piacevolmente, la capacità di Cognetti, in questo romanzo, di evocare concetti immensi attraverso piccole, piccolissime cose. Lo stesso per i personaggi: niente descrizioni, conversazioni essenziali, eppure sono presentati con precisione e coerenza.

La storia è bella, molto, una storia che altri autori, nel raccontarla, avrebbero farcito di ingredienti suggeriti dalla vanità o dal marketing. Invece ha una sua vivida purezza.

Ecco, sì, è proprio la purezza che caratterizza questo libro: materia rara e facilmente deperibile.

Non so se Cognetti scriverà un nuovo romanzo altrettanto puro, e se si troverà in stato di grazia come in questo. Ma intanto l’ha scritto, e vi consiglio di leggerlo. Lascia qualcosa dentro, sottovoce eppure potente.

“Nel guscio” di Ian McEwan (Einaudi)

Bellissimo. Bellissimo. Bellissimo.

Mi ha entusiasmato tutto: l’idea geniale, la scrittura ricca ed elegante con tratti di splendida ironia, la traduzione accuratissima.

Io leggo velocemente, ma Nel guscio è uno di quei pochissimi romanzi che ho assaporato lentissimamente, per apprezzarne ogni parola, ogni concetto, ogni idea.

È il romanzo di McEwan che ho preferito in assoluto. C’è un’idea molto forte come c’era nel suo Giardini di cemento, ma questa mi ha sedotto totalmente.

“Uno straordinario gioco di prestigio, un pezzo di bravura che, ai doni narrativi di precisione, autorevolezza e controllo, aggiunge il diletto assoluto delle acrobazie di cui sono capaci le parole” dice la quarta di copertina. Sottoscrivo.

Leggetelo, per piacere, è davvero bellissimo. A mio parere, un piccolo capolavoro.

“Sofia si veste sempre di nero” di Paolo Cognetti (Minimum fax)

Ho un brutto carattere: se un libro è premiato allo Strega non mi viene voglia di leggerlo. Però dell’autore sono curiosa, questo sì. Così l’altra sera, complice la mia solita bancarella dell’usato, ho cominciato Sofia si veste sempre di nero, anziché Le otto montagne.

Mi è piaciuto. Molto.

È una storia raccontata attraverso dieci racconti scritti con moltissima cura, “cesellati con la finezza di Carver e Salinger” dice la sinossi, e sono d’accordo.

È bravo, Cognetti. De Le otto montagne ho sentito pareri favorevoli e altri meno. Di questo, il mio parere è assolutamente positivo.

“Rondini d’inverno” di Maurizio De Giovanni (Einaudi)

Piaciuto, ma non piaciutissimo.

Un po’ è colpa mia: non avevo mai letto storie sul commissario Ricciardi e quindi, per esempio, che la vicenda si dipanasse negli anni Trenta l’ho capito solo dopo qualche pagina, e ho dovuto rigirarmi il mio film interiore, con nuovi vestiti, nuove acconciature, nuove auto, case, facce, negozi, tutto. Altra colpa: non conoscendo il passato del protagonista, sempre perché Rondini d’inverno è il mio primo Ricciardi, alcuni tratti del suo carattere o certi suoi pensieri non mi sono stati del tutto chiari.

Poi c’è un’altra cosa, sempre da aggiungere all’elenco delle mie colpe: io, ovviamente e come tutti, mi diverto a cercare di individuare il colpevole fin dalle prime righe, ma quando – ops, no, non ve lo posso dire, sennò vi rovino il finale. Però ci sono meccanismi che preferisco ad altri, ecco. E qui erano altri.

Quarta e ultima colpa: sono reduce da un poliziesco di Alessandro Robecchi, che adoro, e non è semplice, dopo un Robecchi fresco fresco, appassionarsi ad altri autori del genere.

Rondini d’inverno è comunque un bel poliziesco, molto, molto ben scritto e ben costruito, godibilissimo. L’ambientazione, un teatro, è ricca di fascino. La voce narrante, struggente e poetica. E gli indizi per permettere al lettore di fare ipotesi sul colpevole sono disseminati ad arte, con intelligenza, cura, e mestiere.

Se avete già letto altri romanzi con protagonista Ricciardi, leggetelo. Se come me non li avete letti, condividete il mio elenco delle colpe prima di leggerlo. 😉

“Quando eravamo grandi” di Anne Tyler (Guanda)

Anni fa avevo letto L’albero delle lattine, della stessa autrice, e mi era piaciuto così così, tant’è che mi ero detta: be’, con il fantastiliardo di libri che ci sono da leggere al mondo, non perderò più tempo con Anne Tyler. Brava, eh, però voglio di più.

L’altro giorno mi sono imbattuta, alla mia solita bancarella dell’usato, in un altro romanzo della Tyler, Quando eravamo grandi. Ero in crisi da astinenza, di libri sul comodino ne avevo pericolosamente pochi, e allora l’ho preso lo stesso.

Mi è piaciuto molto. È una bella storia, racconta di una donna di cinquantatré anni, Rebecca, che si chiede se la sua vita e la sua personalità le assomiglino davvero, o se invece lei abbia forzato vita e carattere in una direzione che non coincide del tutto col suo dienneà. Gran bella domanda.

Rebecca, nella vita reale, vive in una famiglia allargata, anzi allargatissima e chiassosa, ed è una matrigna. (Lo sono anch’io, e ho trovato molto puntuali, molto ricche di sensibilità e profonde le dinamiche che racconta). È sempre allegra e propositiva, si occupa di tutti con energia e grandi sorrisi.

Nella vita immaginata, Rebecca vive invece col suo primo fidanzato, non ha figliastre né ex mogli né niente della sua vita reale. Si concede un filo di asocialità e una certa malinconia di fondo.

Poi proverà a scambiare una vita con l’altra, rendendo reale quella immaginata. E va be’, non vi dico come va a finire, ovvio.

Comunque, a parte questa bella idea di fondo, col meccanismo del what if – cosa succederebbe se, il romanzo è gradevolissimo e ben scritto. Percorso anche da un filo sottile di ironia che si intreccia a un altro fatto di tenerezza. La figura di Poppy per esempio, il parente centenario, è deliziosa e struggente. Lei stessa, Rebecca, è a volte così goffa, ma così umana, che viene voglia di portarla al bar sotto casa a bere un caffè insieme, magari a parlare dei vestiti orrendi che indossa, e riderci su fino alle lacrime.

Da leggere? Da leggere, sì sì, assolutamente.

“Benedizione” di Kent Haruf (Enne Enne Editore)

Ma dai. Che romanzo particolare. Così sobrio che risulta eclatante.

Colorado, in una minuscola cittadina un uomo anziano sta per morire. Intorno a lui si snodano piccole e grandi vicende narrate con una semplicità e una naturalezza stupefacenti.

I dialoghi scarni ma così veri, le descrizioni piccole piccole eppure potenti.

Una scorrevolezza, di scrittura e di pensiero, meravigliosa. E una splendida traduzione.

La quarta di copertina dice il vero: Questo libro è per chi ama rileggere i classici e vorrebbe perdersi negli sconfinati spazi della pianura americana, (…) per chi nutre una sorta di fiducia razionale nel genere umano e crede che le verità gridate siano sempre meno vere di quelle suggerite con pudore.

Bello, veramente bello. Leggetelo, per piacere.

“Bianca come la luna” di Hwang Sōk-Yōng (Einaudi)

Mah, mi dico, l’autore non lo conosco, però se pubblica in Italia con Einaudi sarà bravo. Parla di Corea del nord, migrazioni, sciamane, sono cose di cui so poco e mi interessa imparare. Poi è qui alla bancarella dei libri usati, costa solo due euro, dai, lo prendo.

Allora, magari sono io che sono un’asina, una superficialona, forse anche una brutta persona, chissà. Ma, signori miei, quanto mi sono rotta i coglioni a leggere questo libro? Eh? Quanto? Tanto.

Per i miei gusti, il romanzo ha due problemi, e belli grossi. Uno, è scritto in maniera così piatta, ma così piatta che, va bene posizionarsi come favola moderna, e le favole hanno un loro stile semplice, ma insomma l’autore riesce a trasformare in materiale altamente soporifero anche le vicende più eclatanti. Due, la struttura è sbrindellata. Bella l’idea della ragazza coreana che riesce a vedere la vita delle persone massaggiando i loro piedi. Ma queste visioni sono raccontate in corsivi interminabili, ancora una volta di una noia mortifera, e privi di grazia. Se mi stai raccontando una favola, mi devi far sognare, eh. Ma sognare non perché mi addormento, abbi pazienza.

Non so, sono dispiaciuta come ogni volta che un libro non mi piace nemmeno un po’. E dire che Hwang Sōk-Yōng è definito “senza dubbio il migliore ambasciatore della letteratura asiatica”. Ahhh, ambasciatore, mica scrittore, ecco dove ho sbagliato. Vedi che sono proprio un’asina.

Scusate, mi detesto quando parlo male di un libro, di solito glisso e via, ma questa volta non ho resistito.

“Divorziare con stile” di Diego De Silva (Einaudi)

Almeno cinque volte, durante la lettura di questo romanzo, il condominio dove abito mi ha sentito ridere sgangheratamente verso l’una del mattino. Lacrime grosse come damigiane si sono posate sul cuscino, e quasi non riuscivo a respirare causa sghignazzo convulso e molesto. Il resto delle volte, mi ha sentito ridere con più dignità, ma insomma che meraviglia questo libro.

Poi per fortuna ci sono anche due o tre piccole parti noiosette e prolissucce, che servono a far sopravvivere il lettore concedendogli una pausa.

La storia, di per sé, non conta. Sono le battute, e l’acume di De Silva nel raccontare l’animo umano, che incantano.

L’avvocato Vincenzo Malinconico, il protagonista, è uno a cui verrebbe voglia di mandare un messaggio col telefono, di notte: Sta dormendo, avvocato? sperando che lui risponda no, e si chiacchieri insieme sparando cazzate invereconde fino al mattino.

Se avete senso dell’umorismo, vi prego, vi scongiuro, leggete questo libro. Se non l’avete, leggetelo lo stesso perché dice anche cose molto, molto intelligenti.

“Dietro i suoi occhi” di Sarah Pinborough (Piemme)

Se mi dicono che non riuscirò mai a indovinare il finale, io mi accanisco, non ho pace finché, al finale, non ci arrivo. In effetti ci ero andata vicino, ma non l’ho indovinato del tutto. Ciò non toglie che, a mio avviso, Dietro i suoi occhi sia, come si dice a Parigi, una solenne puttanata. Ma una puttanata che ti tiene inchiodata a ognuna delle sue trecentocinquanta pagine, questo va detto. È anche prolisso, soprattutto all’inizio, eppure non lo si molla. Una delle due protagoniste è così maldestra che verrebbe da empatizzare, ma poi, a ogni cazzata che fa, vien da dire: ehhh, ma allora sei scema forte. Lui, il protagonista maschile, è obbiettivamente strafigo, un po’ alla Christian Grey delle Cinquanta sfumature (ma per altre questioni che esulano dalla sfera sessuale) però è un po’ un coglione, a voler sottilizzare. Eppure.

Una cosa ben fatta, invece, è il graduale avvicinarsi alla follia, e la cura dei particolari e degli indizi disseminati nella vicenda, ben dosati affinché il lettore intuisca, ma non troppo, e si appassioni.

Dietro i suoi occhi mi ha ricordato La gemella sbagliata di Ann Morgan, Follia di Patrick McGrath e persino una lettura dei miei tredici anni, Il vagabondo delle stelle di Jack London.

Precedenti più o meno illustri a parte, è un morboso thriller psicologico con contaminazioni che non vi dico per non svelarvi ‘sto benedetto finale.

Mi è piaciuto? No. L’ho divorato? Sì. Quindi anch’io dovrei essere rinchiusa in una clinica psichiatrica? Mah. 🙂

“Torto marcio” di Alessandro Robecchi (Sellerio)

Eh, ma che bravo che è Robecchi. Avevo già parlato, qui su Colibrì, del suo precedente Di rabbia e di vento, che mi era piaciuto parecchio. Questo Torto marcio, ancora di più. E dire che a me i polizieschi non interessano un granché, anche se poi alla fine ne leggo molti. In Robecchi è la scrittura, prima di tutto, così elegante e fluida e anche ironica e a volte poetica, che apprezzo moltissimo. E poi, l’ambientazione, i personaggi tratteggiati splendidamente nelle loro miserie e nelle loro nobiltà d’animo. Bravo, Robecchi, proprio bravo. La trama, nei suoi romanzi, per me è secondaria, anche se lui la orchestra perfettamente.

Comunque: Milano, zona Fiera, tra quartieri ricchi e quartieri poveri, vengono assassinati due uomini, anzi tre. Tutti i cadaveri hanno un sasso sopra il petto. Che significato avrà? Partono le indagini, eccetera eccetera. Eppure quell’eccetera non ha in sé un filo di noia: piuttosto, interessanti, struggenti riflessioni e tanta empatia, un po’ per tutti. Per chi (forse) ha ragione, e per chi ha torto marcio. Ed è questo il bello.

Bravo, bravo, bravo Robecchi. L’ho detto, bravo?

“Una storia quasi perfetta” di Mariapia Veladiano (Guanda) e “La lunga notte del dottor Galvan” di Daniel Pennac (Feltrinelli)

Che ci fanno questi due libri insieme? Li ho presi entrambi alla mia solita bancarella di libri usati. E li ho letti a distanza di due minuti l’uno dall’altro, nel senso che, finita la Veladiano, per staccare e perché avevo zero sonno, ho subito attaccato Pennac. Altro motivo: se leggo due libri senza almeno una notte di distanza tra loro, capita che sovrapponga un po’ le storie. Ma se i romanzi e lo stile sono molto diversi, non mi succede mai. E questi due autori sono diversi come il giorno e la notte, o il panettone e il pandoro.

Piaciuti entrambi.

Pennac: be’, Pennac è Pennac, lo adoro, soprattutto quando esce dal circuito Malaussène, come in questo caso. Scrive meravigliosamente ed è meravigliosamente tradotto, e poi spiazza, stupisce, incanta. La lunga notte del dottor Galan è un librino minuscolo (poco più di sessanta pagine) assai grazioso. Da leggere in un soffio.

Una storia quasi perfetta: chissà quanti avranno utilizzato il titolo per commentare il romanzo. Mi aggiungo anch’io e pazienza. Ebbene sì, è una storia quasi perfetta. Almeno, per me. Nel senso che mi è piaciuta la vicenda, ma ho fatto un po’ fatica, nella prima metà del libro, a entrare in risonanza col ritmo di scrittura della Veladiano. Che scrive benissimo, per carità, ma qui ha una sua musica particolare, e non è la mia. Dalla seconda metà invece mi sono trovata a leggere senza inciampi, e sono entrata con piacere sia nel ritmo sia nella storia. Si parla di amore, e poi di arte e di piante, argomenti che mi interessano molto. E se ne parla con grazia e competenza. La figura maschile è descritta benissimo, con una profondità rara. E il piccolo Gabriele è una delizia. Bianca, la protagonista, l’ho trovata invece un po’ troppo evanescente, troppo perfezionista, troppo lontana. Questione di empatia che scatta o non scatta, credo.

Della Veladiano avevo letto tempo fa, con molto piacere, Il tempo è un dio breve. Anche Una storia quasi perfetta è un bel romanzo ma, insomma, oh, a me era piaciuto più l’altro. Ecco.

Che ci volete fare, oggi è una domenica di sole e con le recensioni va così. 🙂

“Mia madre è un fiume” di Donatella Di Pietrantonio (Elliot)

L’autrice l’ho scoperta qualche settimana fa con il suo splendido L’arminuta. Poi l’altra sera Laura, amica nonché perfetta consigliera di libri, mi ha detto: Leggilo, secondo me ti piace.

Piaciuto. La Di Pietrantonio ha una scrittura particolare, ruvida a volte, con un ritmo non facile, ma curatissima. Mi ricorda un pochino Erri de Luca.

Mia madre è un fiume è il suo primo libro. E ha un’idea di fondo molto bella: una figlia racconta alla madre, che ha perso la memoria, la sua storia. In un modo crudo eppure poetico, semplice eppure sofisticato, duro eppure tenero.

L’ho letto in due sere, sono entrata in un mondo che mi era sconosciuto, l’Abruzzo rurale degli anni Sessanta e Settanta, tra soprusi e saggezze. E poi mi si è aperta, appena un po’, con un certo pudore contadino, una porta sul rapporto tra madre e figlia, dove il dolore per le scarse attenzioni, l’assenza di fisicità e di abbracci hanno lasciato tracce indelebili. Anch’io non ricordo un abbraccio di mia madre, forse anche per questo sono entrata in risonanza con le belle pagine della Di Pietrantonio. Ma la vera emozione, secondo me, è la sua scrittura, elegante e pura come una roccia, eppure friabile nel mostrare il dolore.

“Prendiluna” di Stefano Benni (Feltrinelli)

Credo di non averne perso nemmeno uno, dei libri di Benni. Li ho letti tutti-tuttissimi: i primi mi hanno entusiasmato, soprattutto per la scrittura perfetta e geniale, per le idee, e per le risate scomposte che mi son fatta ogni volta. Le trame, le trovo secondarie. È la magia delle parole, che in Benni mi incanta. I più recenti, come Pantera e Cari Mostri, mi sono piaciuti meno, anzi, in modo diverso, ma anche in questi ho trovato immancabilmente, a un certo punto, anche una sola frase, una parola, un aggettivo, un’invenzione che mi hanno emozionato profondamente per la genialità.

Prendiluna è tanto, tanto carino. Ma proprio tanto. “Una notte in una casa nel bosco, un gatto fantasma affida a Prendiluna, una vecchia maestra in pensione, una Missione da cui dipendono le sorti dell’umanità. I Diecimici devono essere consegnati a dieci Giusti. È vero o è un’allucinazione?” E così, sempre in bilico tra realtà o sogno, si sviluppa la storia, piena di riferimenti e citazioni per chi li vuole riconoscere, piena di magia e intelligenza e risate per chi vuole godersela e basta.

E poi, soprattutto nelle prime pagine, si capisce benissimo che Benni si è divertito, ma proprio tanto, a scrivere questo nuovo libro. E, se si diverte l’autore, si divertono anche i lettori.

“Iguana Club” di Maurizio Lanteri e Lilli Luini (Novecento Editore)

Gialli, noir, polizieschi: non sono il mio genere preferito. Li leggo però, soprattutto perché sono curiosa e mi piace imparare cose nuove. Così, un po’ di sere fa, complice anche la defunzione del mio vetusto e amatissimo ereader Sony (amato perché funzionava a meraviglia, e amatissimo perché era rosso 🙂 ) ho iniziato Iguana Club, che mi è stato regalato, in versione cartacea, da Lilli Luini.

Veramente ben fatto, devo dire. I due autori, che si sono conosciuti in Rete e scrivono in coppia da anni, sono molto professionali, precisi, attenti, e si documentano sempre con serietà. (Di loro avevo già letto Bruja e La cappella dei penitenti grigi).

La storia parla di mafia, un pochino di amore, persino di freccette, ma tocca anche un argomento che mi è carissimo: la difesa degli animali. Portando alla luce una realtà che non conoscevo: le infinite crudeltà che si compiono sui galgo, dolcissimi levrieri spagnoli che vengono sfruttati per le corse, drogati, sfiniti, e uccisi tramite impiccagione. (www.adozionelevrieri.it è il sito dove si leggono le terribili storie di questi cani, e dove si possono eventualmente adottare).

Cani da salvare a parte, il romanzo è avvincente, certo apprezzabile e scritto con sobrietà. Mancano, secondo me, un po’ di suspense e un po’ di quella che io chiamo magia, ma è comunque una vicenda che si legge volentieri e con interesse.

 

“Il Cerchio” di Dave Eggers (Mondadori)

Be’, io Eggers, dopo L’opera struggente di un formidabile genio e anche Eroi di frontiera, lo amo. Ieri sera ho finito Il Cerchio. Che ho trovato poco Eggers ma molto, molto interessante. Non tanto come romanzo, quanto come una specie di chiacchierata (lunghetta, eh, ché il Dave è un filino logorroico 😉 ) con un formidabile genio.

Il Cerchio “mette tutto insieme. Le tue ricerche e i social media. I tuoi messaggi. Le notizie. Le transazioni finanziarie. Le tue foto. La tua storia clinica. I tuoi film preferiti.” Non solo: applica piccolissime webcam dovunque, che condividono in rete tutto. Ma proprio tutto-tuttissimo quello che si fa. E la filosofia che sta dietro a questo Grande Fratello orwelliano pare anche convincente: se si è visibili e trasparenti, finiscono gli inganni dei politici, finiscono gli omicidi, i rapimenti, i furti, tutti si comportano bene perché sono controllati da tutti. Il problemino è che si finisce dritti dritti nel totalitarismo.

E insomma, per quattrocento pagine Eggers ci racconta, in questa specie di romanzo distopico, come funzionerebbe la nostra vita col Cerchio. E ci affascina. Magari a tratti, insomma, è un po’ noiosetto, ecco, ma appena un pochino. L’argomento è troppo interessante e splendidamente trattato per farsi infastidire da un paio di sbadigli qua e là. Personalmente, come dicevo qualche riga fa, non l’ho considerato un romanzo, ma quasi un saggio. E in questa veste sono felicissima di averlo letto.

(Ah, c’è anche il film, ma non l’ho visto, ché a me i film piace tanto girarmeli da sola 😉 )

“Le perfezione non è di questo mondo” di Daniela Mattalia (Feltrinelli)

Delizioso.

Con un’idea di fondo molto bella, che non vi dico per non rovinarvi la sorpresa. Con personaggi teneri e veri, verissimi (“Gli scrittori non inventano, o meglio, inventano per capire”). Con un’ironia garbata e uno stile particolare, fresco ed elegante. (“Senta, se si vuole fidanzare con me, io ci sto. Ma il suo nome me lo dice?”). Con un bracco giovane e sguaiato, Archibald, di cui ci si innamora all’istante. E una madre spampanata, il mio personaggio preferito, che, tra un corso di spinning ayurvedico e uno di uncinetto online, si rivela, toh, deliziosa anche lei. È davvero tutto una delizia, questo romanzo.

Da leggere d’un fiato, perché non c’è nemmeno una traccia, un fantasma di noia.

Ho detto fantasma? Ops. 😉

“L’arminuta” di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi)

 

Bello, bello, bello. Un libro perfetto.

“Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza.”

Vero, scabro eppure poetico, emozionante, profondo. Scritto benissimo, e cito la quarta di copertina che, per una volta, non mente: “La sua scrittura ha un timbro unico, una grana spigolosa ma piena di luce, capace di governare con delicatezza una storia incandescente”.

Mi ha ricordato un po’ Elena Ferrante, ma in una versione più nitida, minimale.

Bello, bello, bello. La felicità, ieri sera, di aver letto finalmente qualcosa di così perfetto da sembrare magico.